ELP

Esercito di Liberazione del Pianeta, ELP appunto, un esercito che fa una guerra senza morti né feriti, al massimo qualche rottura di scatole se trovi l’autostrada invasa dai polli; invasione ovviamente riportata a gran voce dagli organi di informazione e grazie alla quale il nostro vicequestore, viene a conoscenza dell’esistenza dell’ELP. Che poi a lui in fondo sti ragazzi piacciono, protestano come possono contro chi gli sta rubando il futuro, creano disagi ma non casini grossi, non sono violenti. Ovviamente questore e PM non sono d’accordo, i casini e i reati se ancora non ci sono stati arriveranno eccetera eccetera. Caterina, rientrata a pieno titolo in questura ad Aosta, è impegnata con una donna che è stata palesemente picchiata  dal marito, ma non denuncia e questa è una di quelle cose che proprio Rocco non regge. È chiaro che non essendoci denuncia non può che abbozzare, ma come privato cittadino nulla gli vieta di “incontrare” per caso il signor Novailloz, lontano da occhi indiscreti e da telecamere, per spiegargli che no, picchiare la moglie non è affatto una bella cosa. Se gli sia entrato in testa, nessuno lo saprà mai perché qualcuno quella stessa notte, lo ammazza. L’indagine è più ramificata di quello che sembra all’inizio, il questore è convinto che centri l’ELP Rocco è sicuro che no. Ma sappiamo, son anche un po’ stufa di dirlo eh, che il nostro, inteso come Manzini, pensa ed elabora delle trame gialle perfette, quindi non ne parliamo. Quello che mi va di condividere invece è il sottile cambiamento di Schiavone. Se ne Le ossa parlano, abbiamo visto un uomo in cui la tristezza, la rabbia, lo schifo nei confronti di una certa umanità era (a buona ragione) a livelli altissimi, qui io l’ho sentito se non pacificato, almeno in via di. Il suo inconscio, sotto forma di Marina, continua a pungolarlo perché ricominci a vivere, perché in qualche modo faccia pace con quel che è stato. La ferita che porta il nome di Sebastiano c’è, ovvio, condivisa con Furio e Brizio ci metterà chissà quanto per rimarginarsi, ammesso che lo faccia e comunque farà male per sempre. Con Caterina stanno riprendendo le misure per vedere se si può essere di nuovo amici e sta cercando di capire se e cosa prova per Sandra.  Sullo sfondo, al di là della oggettiva bravura dell’autore, ci sono i “messaggi” che forse non volutamente, ci danno qualcosa su cui riflettere. Perché forse Schiavone e la sua combriccola, sono davvero la rappresentazione più fedele possibile di quello che siamo o che dovremmo essere tutti. E allora ben venga il lasciarsi avvolgere dal dolore fino ad esaurirlo, ben venga prendere in coraggio a piene mani e dire al mondo “io sono questo” se vi piace bene altrimenti bene lo stesso (Deruta). Si intoni l’alleluja quando si comprende che l’amore è una forza vitale quando non ti schiaccia, se lo fa si trovino forza e coraggio per allontanarlo (D’intino). Si applauda a chi accompagna i figli, frutto dei propri lombi e non, nella ricerca del proprio essere adulti, lasciando che paghino se sbagliano e comunque sostenendoli nelle loro idee. E sia benedetto il cielo (sì lo so la pòesia mi sta prendendo la mano) che ci mette sula strada persone come Manzini, con quel cuore e quel cervello, e un mucchio di cani cattivissimi.

JULIET MARION HULME

L’IRONIA DELLA VITA

Juliet Marion Hulme e nasce a Londra nel 1938 ma a causa di una debole costituzione e della tubercolosi, passa la sua giovinezza in posti caldi, durante il conflitto è in Nuova Zelanda dove nel 1948 si trasferisce anche il padre che assume la direzione del Canterbury College di Christchurch.

Juliet non ha molti amici ma si lega particolarmente a Pauline Parker, le ragazze, ma forse sarebbe meglio dire le bambine, passano insieme un sacco di tempo, tanto che negli anni, anche a causa di una “diagnosi” psichiatrica, c’è il sospetto che le due siano almeno a livello sentimentale, innamorate (parliamo sempre comunque di preadolescenza). A sedici anni Juliet dimostra già un’indole piuttosto contorta, tanto che scoperta la madre a letto con un uomo che non è suo padre, tenta di ricattare lo sventurato signor Perry. Vi è suonato un campanellino? Bene.

Dopo la diagnosi di cui sopra, le famiglie decidono di separare le due ragazze, in realtà è Honora Parker che maggiormente si oppone alla frequentazione. Nel diario di Pauline (poi vi dico perché lo citiamo) descrive lei e l’amica come creature celestiali di incomparabile bellezza, superiori alla media, quasi appartenenti ad una razza privilegiata. Il professor Hulme, ormai al divorzio, sta per lasciare la Nuova Zelanda e decide di portare con sé Juliet che, nei piani del padre dovrà restare (sempre per la questione climatica) in Sudafrica affidata alle cure di un collega. Sempre dal diario di Pauline “Ogni giorno muore tanta gente, perché non la mamma?” Per farla breve, il 22 giugno del 1954 le due uccidono la madre di Pauline, il piano è di farlo passare per un incidente ma il medico che presta soccorso alla donna, secondo le ragazze caduta su una pietra, intuisce che la dinamica è un’altra, chiama la polizia e le ragazze finiscono sotto processo. È qui che il diario diventa importante in quanto portato come prova in tribunale dimostra chiaramente la premeditazione. Solo per la loro giovane età scampano alla pena di morte e finiscono in prigione per i 5 anni successivi, a 700 km di distanza l’una dall’altra. Pauline una volta libera scompare, Juliet invece raggiunge il padre in Inghilterra.

Nel 1978 esce con un discreto successo, a firma Anne Perry, quello che diventerà il primo di una lunga serie di storie, “Il boia di Carter Street” , un romanzo ambientato in epoca vittoriana  con protagonista l’ispettore Thomas Pitt. Nel 1994 il regista Peter Jackson gira un film “Creature del cielo” con Kate Winslet, ispirato alla storia di Juliet e Pauline che risveglia i ricordi di un giornalista. Questi, seguendo le tracce di Juliet Hulme si accorge che Juliet scompare quando sulla scena appare una scrittrice chiamata Anne Perry. Tutti i giornali escono con la notizia che in realtà una delle più grandi scrittrici di gialli è un’assassina. Anne Perry conferma al suo editore che è tutto vero, il suo è uno pseudonimo, quella ragazzina coinvolta in un’omicidio, Juliet Hulme era lei. Intervistata dallo scrittore scozzese Ian Rankin, la Perry conferma la sua vera identità al mondo, racconta la sua storia e di aver capito durante la detenzione, l’importanza di pagare il proprio debito con la giustizia cosa giusta e utile per la rinascita come persona. Il riscatto dice, arriva quando si capisce che ciò che si è fatto era male e non si desidera più essere quel tipo di persona. Ammette candidamente nell’intervista,di non aver mai pensato all’ironia del fatto che lei si guadagni da vivere come scrittrice di gialli, finché non glielo hanno fatto notare.

IL BOIA DI CARTER STREET

Londra primavera 1881. La vita del quartiere londinese dove vive la famiglia Ellison, è scossa da una serie di orrendi delitti di cui è vittima una delle loro domestiche.

Sebbene la morale e i costumi dell’epoca non prevedessero per le fanciulle la lettura dei giornali, Charlotte, che è poco incline al rispetto delle rigide regole, segue la vicenda proprio dai quotidiani. A occuparsi delle indagini è l’ispettore Thomas Pitt, abile conoscitore dell’animo umano, in qualche modo riesce a coinvolgere la giovane, mostrandole una realtà del tutto diversa da quella che lei immagina. Col proseguire delle indagini, che si avvicinano sempre più al mondo di Charlotte stessa, la ragazza, oltre a capire che la società non è quella che lei ha sempre creduto, che appena fuori dalla porta di casa esistono la miseria, bambini costretti a lavorare, donne che si prostituiscono per la sopravvivenza loro e dei propri figli, scopre anche di provare un nuovo sentimento, anch’esso del tutto contrario alle convezioni. Con pochi tratti, Anne Perry ci catapulta completamente in pieno periodo vittoriano, quando il perbenismo e le convenzioni sociali dominano la società, soprattutto fra i ceti medio-alti. Il comportamento in società è dettato da rigide regole, il perbenismo domina la morale comune e chi non segue queste regole è destinato a dare scandalo, soprattutto se donna. La Perry è abilissima oltre che a tratteggiare il periodo storico, anche a imbastire una trama che tiene il lettore in sospeso fino alle ultime pagine; scoprire chi è il serial killer e il movente dei delitti – quanto di più anticonvenzionale e scandaloso per l’epoca – non è affatto facile. La narrazione si snoda con eleganza e precisione fra scene di vita sociale e familiare, mentre le indagini si svolgono nel tipico stile del giallo classico. Con questo romanzo (1979) inizia la vasta produzione della Perry che oltre alla serie all’ispettore Pitt, trentadue romanzi, fra altre serie i singoli e racconti, consta di oltre un centinaio di opere.

Ho cominciato a leggere Anne Perry dal primo romanzo, l’ho amata moltissimo e a qualche giorno dalla sua scomparsa, mi è sembrato giusto ricordare la storia di questa grande autrice, che ha dato alle stampe romanzi ormai entrati di diritto nella giallistica classica. Molti appassionati conoscevano già questa storia, ma credo possa essere interessante anche per chi non è addentro. Se non la conoscete, vi consiglio fortemente di aggiungerla senza meno alla vostra libreria.  

Articolo e recensione sono a cura di Martina Sartor

LA GRAZIA DELL’INVERNO

di LOUISE PENNY

Facciamo una premessa, Einaudi, la casa editrice che ha avuto il colpo di genio assoluto di pubblicare in Italia la Penny, ha spiegato da qualche parte (che naturalmente non ricordo ma il succo c’è) il perché non siano pubblicati e tradotti nell’ordine di uscita.                             Quindi, se non l’avete ancora incontrata, partite dal primo della serie che è Natura morta e poi proseguite con La grazia dell’inverno. Potreste chiedervi/mi perché mai dovrei?   Primo perché scrive deliziosamente ed è tradotta magistralmente, capite che già questo sarebbe un buon motivo, poi ha inventato (forse) questo paesino minuscolo, in Quebec, probabilmente a pochi km da Pikax (poi vi dico che Paese è) e Armand Gamache, capo della sûreté du Québec con tutto il cucuzzaro.                                                                                          Il cucuzzaro è composto dal gruppo eterogeneo che di più non saprei immaginare che compone Three Pines e pur essendo così diversi fra loro, hanno creato un’armonia bellissima. La moglie di Gamache, Reine Marie, un’archivista dolce e arguta. I loro figli e il suo vice, i futuri vicini gli agenti, eccetera eccetera. La trama è folle, pazzesca e incredibile ma assolutamente perfetta, poi  le atmosfere le interazioni, insomma tutto. Le vicende narrate hanno un seguito temporale che non è indispensabile seguire, ma a ragion veduta, per le implicazioni che hanno nel complesso, se non avete letto quelli già pubblicati, lasciateli sullo scaffale e seguite l’ordine deciso dall’autrice. Conoscete Lilian Jackson Brown? Se non la conoscete andate a cercare i suoi romanzi perché dopo amerete ancora di più la Penny.

                                                                                                                     È lei che per prima (vale per me ovviamente), mi ha portata ai confini col Canada, nella contea di Moose dove appunto si trova Pickax, dove i delitti più orrendi sono nascosti dal bianco della neve, dove il freddo (meteorologico e non) viene attenuato dal calore dei sentimenti. Dove anche nella modernità dei tempi, restano fondamentali i sentimenti.                                                                                                                                       Reine Marie con il suo accogliere, mi fa pensare alla moglie di Magreit, alla contrapposizione del fuori e del dentro casa, non solo casa Gamache, il male resta fuori e quello che è dentro le persone, come se fosse una magia, viene eliminato e purificato dall’amore, familiare o amicale che sia.                                                                                                           Un’autrice che vale tutto il tempo che le si dedica, che soddisfa i giallofili puri con le trame, e gli amanti dei romanzi tout court. Lontanissima dalla freddezza del giallo cosiddetto nordico, sebbene il Canada non sia esattamente al sud del mondo, ti porta nell’abisso (nello specifico davvero profondo) dei sentimenti umani e poi ti rassicura senza mai essere melensa.                                                   Una di quelle scrittrici che vorresti leggere e rileggere fra un libro e l’altro.

CAMINITO un aprile del commissario Ricciardi

Ci sono romanzi  che sono poesie, raccontano storie succedono cose ma la sostanza rimane poesia.

Quella di un amore non corrisposto che non si arrende, non accetta di morire e si sublima in una musica che diventa una danza. Sensuale crudele affascinante, che anche se non la sai ti invade il corpo. Una danza che si accompagna a parole di rimpianto che nascondono una forza che a volte non sai di avere.

È poesia una stradina che diventa viaggio e meta, è una pietra elevata a panchina, una strada che può essere ovunque e ad ogni metro risveglia ricordi, riscalda il cuore di chi l’ha percorsa con accanto l’amore e lì, solo lì, ci parla e ascolta, come se fosse ancora fisicamente vicino. Perché l’amore risponde l’amore ascolta e asciuga lacrime che non finiranno mai.

La poesia di un mese ingannevole, con l’aria che parla di primavera, che ci si può nascondere dietro un cespuglio per  far l’amore e trovare la morte.

È poesia la paura di un padre che non sa se potrà proteggere la figlia da un’eredità che potrebbe averle involontariamente trasmesso, né da un futuro che è gravato da nuvole nere, in cui ogni parola può essere un pericolo, un futuro che potrebbe non esserci.   O quella di un padre disposto a mutilarsi perché un figlio possa avere il meglio. È poesia perfino un marcantonio vestito da Lady dei boschi                                                                               

Lo è la dolcezza di una bimba che fa ridere quel papà imitando la sua tata che comunica solo con proverbi in cilentano stretto e lo rende orgoglioso della sua intelligenza che un’amica preziosa sta curando.   

Questo e tanto altro è Caminito.

Un inno alla vita che va avanti prepotente a dispetto di tutto e si sente la necessità di de Giovanni o di Ricciardi (che pare sia uno stolker da manuale) di raccontare che la vita che non si può fermare. Non ci sono lutti che ci portino via chi abbiamo amato, non c’è paura che non si superi, non c’è nulla per cui non valga la pena di rischiare.

Poi c’è tutto quello de Giovanni ci ha abituato a trovare nei suoi romanzi, il giallo la Storia le cose di tutti i giorni, l’amicizia la Città, ma quello lo trovate nelle recensioni vere, questa è solo una dichiarazione d’amore a chi non avevo capito, mi fosse mancato tanto

L’ODORE DELLA RIVOLUZIONE

Andrea Franco

Giugno 1846, la città eterna è insanguinata da una successione di delitti che miete vittime delle classi sociali più disparate, da uomini di chiesa a un “carnacciaro” – una specie di incrocio fra un gattaro e un venditore di scarti destinati agli animali –  accomunati sembra, soltanto dall’aver subito orribili torture prima di essere uccisi. Don Attilio Verzi, ormai monsignore grazie alla “benevolenza” di Papa Pio IX poco dopo la sua elezione, viene chiamato ancora una volta a indagare, grazie al suo intuito e a quella sua particolare caratteristica di cogliere gli odori che nessun altro sente, compreso l’odore del peccato – per inciso titolo del primo romanzo che lo ha visto protagonista – Le indagini condotte insieme al suo assistente Giani e al capitano della Milizia Iacoangeli, conducono a eventi accaduti cinquant’anni prima durante la Rivoluzione francese. La Rivoluzione del titolo, appunto. Nel corso del romanzo scopriremo che la rivoluzione riguarda anche i personaggi e la loro storia: Attilio, il cui segreto nascosto nel passato si scoprirà solo alla fine e Iacoangeli, coinvolto in una storia d’amore difficile. Perché “le cose cambiano in continuazione, nulla è mai immobile, determinato. E forse, quel profumo strano che si portava addosso Iacoangeli in quei giorni era proprio l’odore del cambiamento, della rivoluzione.” Una serie di gialli storici ambientati nella Roma papalina di metà ‘800, come protagonista un investigatore molto particolare. Monsignor Verzi infatti ha una caratteristica che spiega “l’odore” citato in ogni titolo: è il “fiuto”, una capacità tutta sua di captare e decifrare gli odori delle persone che incontra, e che sente anche aleggiare dai morti e di associarli a particolari caratteristiche umane. La predisposizione alla menzogna,  la cattiveria  l’orgoglio, ma anche la bontà, oltre a situazioni che lo aiutano a individuare il colpevole. Cimentarsi col giallo storico non è certo semplice. Oltre a una buona trama, che regga l’investigazione, bisogna essere il più accurati possibile nella ricostruzione di ambienti ed epoche. Andrea Franco sa renderci una Roma ottocentesca viva, raccontandoci di mestieri che neanche sospettavamo esistere, come quello del carnacciaro,  facendoci assaporare vini antichi, che si chiamano sospiro, chirichetto, fojetta. La contemporaneità degli eventi con personaggi reali, come Mastro Titta, il famosissimo boia, e papa Mastai Ferretti rendono gli eventi ancora più inseriti nella realtà storica e coinvolgenti. L’odore della rivoluzione è il terzo romanzo giallo  scritto da Andrea Franco, molti sono invece i racconti, con protagonista monsignor Verzi. Con il suo primo romanzo, L’odore del peccato, nel 2013 Franco ha vinto il premio Alberto Tedeschi (Gialli Mondadori). A seguire, L’odore dell’inganno, del 2016, e infine questo, uscito a settembre sempre nella collana dei Gialli Mondadori. Se verso la fine alcune scene di una violenza fin troppo efferata mi hanno fatto storcere un po’ il naso, la figura di Verzi però spicca su tutto: la sua capacità introspettiva, il suo mettersi in discussione e temere la sua fallibilità tutta umana, la sofferenza che si porta dentro lo rendono un personaggio vivo e interessante, da seguire con attenzione. E certamente il passato di Verzi non ha ancora finito di svelarci i suoi segreti.

PRATO ALL’INGLESE

Frédéric Dard è noto ai più per la famosa serie del commissario Sanantonio – 184 volumi – con cui raggiunse il successo ma dagli anni ’40, scrisse più di 300 romanzi tra serie e fuoriserie, alcuni dei veri e propri gioielli noir, che Rizzoli sta proponendo nella collana NeroRizzoli. In Prato all’inglese Jean-Marie Valaise, un rappresentante di calcolatori in vacanza a Juan les Pins si imbatte a causa di uno strano
equivoco in Marjorie Faulks, una donna inglese all’apparenza piuttosto triste. Pure lei è in vacanza da sola e complici il senso di libertà, i bicchieri di champagne e l’inevitabile fascino della Costa Azzurra in cui tutto sembra poter accadere, si invaghiscono l’una dell’altra. Tutto in una notte, perché Marjorie deve ripartire il giorno dopo; si lasciano con la promessa di scriversi. Un paio di giorni e Jean-Marie riceve in albergo una lettera appassionata con cui Marjorie lo invita a raggiungerla senza indugi a Edimburgo, cosa che lui decide di fare partendo immediatamente, spinto anche dalla sua ex, forse, Nicole che lo ha inaspettatamente raggiunto. Arrivato fortunosamente, a causa di uno sciopero non previsto, nella capitale scozzese, la donna che sognava lo stesse aspettando, sembra non essere mai esistita, non si presenta all’appuntamento e sembra non essere in nessun albergo bed & breakfast o casa privata. Valaise non capisce o non vuole credere a quello che sta vivendo e si ritrova in situazioni via via più allucinanti, fino ad entrare in un incubo e scoprire di essere parte di un piano a dir poco machiavellico. Anche in questo romanzo, come i precedenti pubblicati da Rizzoli (Il montacarichiI bastardi vanno all’infernoGli scellerati) l’autore basa
la storia su uno schema ben preciso e principalmente su due personaggi ottimamente caratterizzati, creando un intreccio surreale e folle ma che
alla fine ha una logica più che reale.
Un noir molto scorrevole, arricchito dalle ottime descrizioni paesaggistiche che trasportano il lettore, ci si ritrova a passare dal sole e la spensieratezza quasi irreale della Costa Azzurra al freddo e piovoso clima scozzese, girovagando insieme al protagonista dal centro alla periferia di Edimburgo, in un gioco sempre più folle.
Lo consiglio sicuramente ai lettori di Georges Simenon e di Artur Conan Doyle da cui l’autore sembra aver trovato ispirazione per la realizzazione dei
contesti e per la caratterizzazione dei personaggi investigativi.

“Dal pudore che aveva, si intuiva la profondità del suo dolore. La vera disperazione non ha il coraggio di esprimersi. Chi si confida dimostra di avere ancora qualche riserva di energia. Mentre Marjorie era arrivata al capolinea. Ero entrato nella sua esistenza….”


OMICIDIO PER PRINCIPIANTI

Presente il famoso omen nomen? Io non ci sono mai stata ma da come lo descrive Frascella, Barriera di Milano, quartiere periferico di Torino, sembra essere  davvero un posto che chiude, che fa da barriera appunto. A cosa? Al benessere, alla crescita a tutte quelle cose che contraddistinguono le zone “bene”. Un po’ come succede a tanti quartieri di periferia. Meta degli immigrati dal sud quando c’era il lavoro e poi punto di arrivo di tutta l’altra immigrazione più contemporanea, perché i prezzi sono popolari, perché a un colore di pelle o a una lingua in più non ci fa caso nessuno. A me fa venire in mente il milanese Quarto Oggiaro, una volta famigerato e oggi quasi un posto a se stante, dove resistono un paio di sacche (vie) in cui la criminalità la fa da padrone, ma per il resto un piccolo angolo che pur facendo parte della città ne rimane fuori. Un posto dove resistono i piccoli negozi dove tutti sanno tutto e ognuno si fa i fatti suoi. È lì che è nato e cresciuto Contrera, ex poliziotto che per le sue cazzate è stato sbattuto fuori dalla Polizia e si porta dietro il rimorso del suicidio del padre, del proprio divorzio e l’odio di sua figlia. Per campare, perché proprio di campare si parla, fa l’investigatore privato e vive in casa della sorella, adorato dalla stessa e dai nipoti ma odiato dal cognato. Proprio l’amore incondizionato nei confronti di Giada, la nipotina che lo vede come un eroe che tutto può, gli fa promettere che ritroverà la sua compagna di classe, rapita? Scappata? Non si sa. È bastato che il bidello si allontanasse per pochi minuti e della bambina non c’è più traccia. Sempre più stropicciato, più insicuro più incasinato, Contrera a tenersi fuori dai casini proprio non ce la fa, oddio non è che nemmeno ci provi più di tanto, un po’ come se si fosse convinto di essere irrecuperabile, di portare in sé il seme della distruzione. Che sia vero o no, è un personaggio a cui è difficile non affezionarsi, perché sia pure esasperati i suoi difetti le sue mancanze le sue insicurezze, sono quelle di tutti, così come è quella di tutti la fatica di far pace con se stessi, con le conseguenze dei nostri errori e perfino con il “perdono” che ci concede chi ci ama e che sappiamo di avere ferito. Il caso lo risolve quasi per caso, e lo ammette, scoperchiando un verminaio ignobile, ma  questo la gente di Barriera e soprattutto Giada non lo sa e lui rimane quello che toglie un po’ di sporcizia dal quel loro piccolo mondo.  A noi non resta che aspettare di scoprire se deciderà di rimettere in piedi la sua vita o se continuerà a tentare di sopravvivere a se stesso.

UN SALTO A CASA DELLE ASSASSINE

  • Della piccola casa editrice tutta femminile vi ho già parlato più volte, lo rifaccio segnalando qualche titolo perché                                                                                                
  • 1 –  i titoli che segnalo li ho letti e valgono sia il tempo che il denaro, li raggruppo in un articolo unico perché – come mi pare di aver già detto – il tempo è poco e i libri tanti.
  • 2 – anche questo l’ho già scritto ma repetita juvant, Tiziana Prina, fondatrice e cacciatrice di romanzi, ha un gran fiuto e in questi anni dove anche i romanzi  dei nomi più grossi, salvo pochissimi, fanno fatica a restare a galla, anche un gran coraggio, ha scelto di pubblicare solo autrici, andando a pescare nel passato con la collana Vintage e portando in Italia autrici da tutto il mondo, anche da quegli angoli che normalmente non colleghiamo, noi lettori normali, alla letteratura, le autrici di Oltreconfine. E se posso scrivere una piccola cattiveria, e mò vedemo chi me lo impedisce, delle tante difensore delle donne a oltranza che vedo sui social, non ne ho viste incoraggiare e sostenere una CE così particolare. Cià che passo ai libri

Crimini di prima classe Elizabeth Gill

Classe 1901 americana, racconta di un delitto avvenuto a bordo di una nave in viaggio dall’Inghilterra agli Stati Uniti. Già visto già letto? Sì, ma scritti molto dopo e ambientati nel passato, qui la scrittura è attuale (per l’epoca) e l’ambientazione abbastanza fresca e nuova.  L’indagine non è svolta da un poliziotto ma da un passeggero, le domande a partire dal perché una simpatica e bonaria signora sia stata uccisa, sono tante i moventi si moltiplicano e il tempo per assicurare alla giustizia un assassino prima che sbarchi nella Grande mela, si consuma velocemente.

Un colpevole in giuria

Ruth Sanborn

La signora qui invece è nata nell’800 addirittura, tre romanzi e un centinaio di racconti nel curriculum. Siamo in pieno proibizionismo (con tutto quel che ne consegue nei sotterranei) e alla sbarra c’è una donna accusata di aver ucciso l’amante. In giuria c’è la terribile e potente mrs Vanguard che tutti temono, quasi tutti, il perché lo scoprite dopo che qualcuno l’ha uccisa. Con subdole manovre ha tenato di influenzare i pochi innocentisti ma evidentemente qualcuno dei giurati non ha gradito. Il romanzo è una via di mezzo fra il delitto della camera chiusa e un resoconto coinvolgente dove i colpi di scena si susseguono con un ritmo insolito per l’epoca. Personaggi variegati e uno alla volta segreti – qualcuno di pulcinella – che vengono alla luce svelando insospettabili intrecci e moventi come se piovesse. Non posso che consigliarvelo. Buona lettura.

UNA COSA DA NASCONDERE

Il romanzo precedente è uscito nel 2017, potete immaginare la voglia di metterci sopra le mani e divorarselo, finalmente arriva il momento e mannaggia la pupazza a pagina 50 meditavo il lancio dalla finestra, a pagina 98 o giù di lì, ero certa che lo avrei lanciato. Due cosi indescrivibili (sì sì ho deciso di non usare il turpiloquio ma avete capito di che cosi parlo).  Una Londra che di solito non trovo nei libri, e già un po’ mi son sentita spiazzata,  dei miei amati non c’è traccia, in compenso ci sono delle descrizioni che farebbero imbestialire i santi. Ovvio che un attimo prima dell’abbandono, suppongo non per caso, sono entrati in scena i nostri e lì ho pensato che volevo proprio vedere come diavolo avrebbe intrecciato le storie. La George è quel che in America si chiamerebbe un fottuto genio. Alla fine il risultato è che ti bevi le rimanenti 400 pagine senza fermarti e alla fine ti esce un’esclamazione che userebbe Rocco Schiavone se qualcuno gli dicesse di aver fatto 6 al superenalotto. Sempre per evitare, inizia per m e finisce per i.

Stabilito che se già amate l’autrice qui la adorerete e se non la conoscete dovete darvi una mossa perché è una lacuna brutta, mi scappa una riflessione su come sia facile fare una cosa sbagliata nel tentativo di farne una giusta. Seguo la George sui social, è una dem molto attiva, a volte rasenta la violenza nelle sue esternazioni contro i repubblicani. Ovviamente è attivissima anche sul fronte razzismo, nel senso che è giustamente contro. Ecco secondo me qui, nel romanzo intendo, cercando (al di là del giallo che è magistrale), di far comprendere, di avvicinare i suoi lettori alla cultura africana, nigeriana nello specifico, cercando di sottolinearne la parte sana, e se leggerete il libro capirete cosa intendo, ottiene l’effetto opposto. Il bene non fa notizia, il bene non ti resta impresso, l’eroe buono lo dai per scontato. In compenso l’orrore di certi atteggiamenti di retaggi culturali che purtroppo resistono a qualunque tentativo di civilizzazione, ti resta impresso a fuoco. Il ritratto dei nigeriani ma in generale dei neri che vivono in Inghilterra (ma potrebbe essere l’America o l’Europa), che esce dalle pagine, è proprio brutto. Gente che non vuole integrarsi, che vede in chiunque non sia nero un nemico, qualcuno da sfruttare ma tenere lontano, i bianchi vanno disprezzati a prescindere e se ti sembrano amici, fingono. Davvero sgradevole nel complesso nonostante alcuni dei protagonisti neri siano assolutamente positivi. Spero e suppongo che abbia un po’ calcato la mano, ma il fatto che spesso, anche in Italia, se muovi qualunque osservazione, che niente ha a che vedere col colore, i neri si “difendono”dandoti del razzista, temo che non sia così distante dalla realtà.

Ferma restando quindi l’ammirazione per la scrittrice, che ripeto e ribadisco è grandiosa, mi resta la perplessità sul resto, su come nessuno dell’enorme staff di collaboratori, si sia posto il problema che  chi ha nell’animo anche solo una briciola di razzismo, leggendo questa storia si sentirà legittimato a sentirsi superiore, avallato nel suo considerarsi migliore e questo devo dire, mi dispiace assai.

LE OSSA PARLANO

E ne hanno di cose da dire




Rocco Schiavone non è più un personaggio, è un uomo un poliziotto. E prepotentemente il poliziotto, la guardia come da lessico romanesco, prende il sopravvento sull’uomo o almeno questo è quello che sembra, può essere perché il “caso” è l’omicidio di un bambino, l’abuso dell’infanzia una roba che fa accapponare la pelle che non si può accettare che scatena nei confronti dei pedofili una rabbia cieca e profonda. Rocco stavolta indaga, per davvero, con la voglia di trovare chi ha fatto del male a un’anima innocente, eppure nonostante mai come in questo romanzo il focus sia trovare l’assassino, io ci ho trovato più che in altri, l’uomo.

Un uomo che ha visto sgretolarsi tutto e si è sgretolato di pari passo con la sua vita. Marina è morta ed è sempre più lontana, lo spinge a lasciarla andare e ricominciare a vivere. Sebastiano, nelle cui mani Rocco avrebbe messo la sua vita, se le è sporcate del sangue di Marina e le ha passate con metaforiche carezza sul viso di Rocco. Sono sole alcune delle coltellate che la vita ha inferto al vicequestore. Su queste ferite e su come Schiavone abbia affrontato fino a qui tutto quello che la vita gli ha messo davanti, applicando pedissequamente la teoria del romanissimo sticazzi, Manzini ha costruito dei romanzi che si sono fatti via via più profondi senza perdere mai la leggerezza. Qualcosa è cambiato però e si sente. Ha preso l’amarezza di questi ultimi due anni e l’ha trasformata in un romanzo tosto, forse il più tosto di tutti, no, di tutti no. Non si ride come al solito, anche se ovviamente qualche sorriso scappa, il tema non lo consente, eppure non ci si stacca dalle pagine. Si indaga insieme alla squadra si esamina ogni dettaglio che aiuti a fare un passo in direzione di chi ha fatto di quel bambino un sogno interrotto, Mirko che diventa il bambino di ognuno, diventa la nostra speranza nel futuro che vediamo tradita. La rabbia e il dolore, quello che stiamo provando tutti probabilmente, vengono in superficie come quelle piccole ossa che  Manzini trasforma in un tremendo meraviglioso viaggio che inevitabilmente comprende degli abbandoni e dei nuovi punti da cui ricominciare una volta scoperto tutto quello che ci racconta quel che resta. E non fatevi “spaventare”, Sia pur meno cazzone dl solito, fra le pagine non c’è solo amarezza, c’è anche una lucina in fondo al tunnel che per una volta potrebbe non essere il fanale del FrecciaRossa. Ancora una volta, chapeau monsieur Manzini.