Il delitto di Kolymbetra – Un Sellerio al giorno leva il malumore di torno

Lamanna e Piccionello, praticamente una coppia di fatto (col beneplacito di Suleima, legittima fidanzata di Lamanna) ci scarrozzano su e giù per la penisola. Per tutta una storia complicata, la colpa è comunque di Zuck e faccialibro, si trovano a Milano, un vernissage di una galleria all’Isola. Così Saverio e Suleima possono anche vedersi, che per due fidanzati è sempre una bella cosa. Forse le coincidenze non esistono, ma neanche un terrapiattista potrebbe pensare a una serie così perfetta di incastri. Un’offerta di lavoro per l’ex portavoce ministeriale si incastra con un lavoro della sua bella architetta e con la consegna di denaro ad una coppia dello smisurato (in realtà siamo intorno al centinaio), clan dei Piccionello, marito e moglie “quasi scomparsi”. In tutto ciò, nella splendida cornice dei giardini di Kolymbetra, si consuma anche un omicidio di cui si occupa una vecchia conoscenza dei nostri eroi. Mica male eh. Il perchè e il percome, as usual, li scoprite leggendo questo secondo romanzo di Savatteri. Giornalista televisivo, saggista e un romanziere, a chi lo abbia visto (per esempio al Salone di Torino), in compagnia dei suoi sodali, vengono in mente altre descrizioni, ma qui siamo seri e non le diremo. Il plot giallo è perfetto ma quello caratterizza il racconto è il continuo intersecarsi di Lamanna con Savatteri che gli da voce. O forse è Savatteri che si insinua in Lamanna, rimane il fatto che l’uno esprime i pensieri dell’altro con sapienza e ironia. Potrei addentrarmi nell’amore disincantato per la Sicilia azzardando paragoni coi Padri nobili, ma per questo ci sono quelli che fanno le recensioni e le analisi, io mi limito a prendere atto dell’ironia che Savatteri canalizza nello sfottò dei “difetti”, delle peculiarità isolane, potrei parlarvi del mare di Màkari, da cui se non ho capito male si vedono le Egadi (non fidatevi che ho finito le scuole da troppo tempo), dello splendore della Valle dei Templi (di cui il giardino di Kolymbetra è una gemma) o ancora soffermarmi sullo scempio che è stato fatto nel Bèlice. Ma anche qui, lascio ai professionisti il compito. Io dico solo che chi non lo legge non sa cosa si perde, in termini di bella scrittura, di trame ben tessute e di risate, grasse sane risate alternate a più discreti sorrisi. Perchè i librini blu, hanno sempre un perchè, un gran bel perchè.

Vuoto per i Bastardi di Pizzofalcone

Il vuoto per definizione tende a riempirsi, ogni elemento è incline ad espandersi ed occupare lo spazio vuoto. Vale anche nella vita, per gli esseri umani, quando qualcuno ci lascia tentiamo di “sostituirlo/a” velocemente. Ma ci sono vuoti che per quanta roba ci si metta restano devastanti, ci sono vuoti che straziano. Avendo deciso di fare un blog che parla di libri, mi sento in dovere, di scriverne, ma con de Giovanni è sempre più difficile. Cosa vi dico? Che è come sempre eccezionale? Che una volta di più, l’ennesima, ha scritto un romanzo di una cattiveria che non posso definire inaudita solo a causa della cronaca che è ogni giorno più crudele? Eppure come ogni santa volta, te ne accorgi dopo, quando lo hai finito e quel che hai letto è sedimentato. Solo allora realizzi l’enormità di quello che hai letto. Perchè mentre lo leggi ti cattura ad ogni riga, stai in guardia per capire se ti puoi fidare della Rossa (chi è lo scoprite poi da soli eh), ti emozioni e ti inorgoglisci per Aragona, che è balordo ingenuo buffo, ma non stupido e ha un cuore grande. Mentre giri una pagina dopo l’altra ti appassioni e ti ritrovi esattamente dove eri rimasto un anno fa, quando hai chiuso Souvenir con un groppo in gola che è rimasto lì un pezzo e non segui l’indagine, no, bevi avidamente parola dopo parola, riga dopo riga per la necessità di sapere se lui sarà, se lei, se ancora lei, se loro due… de Giovanni dipinge sentimenti, usa tutti i colori, primari e terziari tirandone fuori delle cose bellissime, che in mancanza di altre parole chiamiamo romanzi. E siccome nulla è per caso, mi è capitata sotto gli occhi questa citazione. Con i Bastardi compresi nella gente e aggiungendo qualche sana risata, direi che Dostoesvskij ha detto tutto.

“E tutti si osservano e si saggiano a vicenda con occhi curiosi. Ne viene fuori una sorta di confessione generale. La gente si racconta, si descrive minuziosamente, si analizza davanti al mondo intero, spesso con dolore e sofferenza”..

Fedor Dostoesvskij – 1847

I paragrafi concentrici di Marco Malvaldi

Siamo verso la metà del 1400, a Milano c’è un ducato ovviamente un duca, più di uno a dire la verità, più o meno legittimato a governare dall’alto della sua ragguardevole altezza (all’epoca non era così usuale essere alti) e con la forza che emana il suo sguardo. Anche di carattere pare non fosse proprio un pasticcino, ma ripeto, all’epoca si usava così e quindi più di tanto non ci turbiamo. Al soldo del Moro, che gli ha commissionato una statua equestre in bronzo – enorme – per dare eterno lustro a Francesco Sforza che è morto da ventisette anni, ma come suol dirsi è vivo e lotta insieme a noi, c’è Leonardo da Vinci, maestro riconosciuto in più di un’arte. Le vesti rosa e il fatto che non abbia donne, fanno sì che sia considerato diciamo eccentrico, ma anche questo non è il punto. Si ma allora sto punto? Ok avete ragione, il punto è che Leonardo ha sempre con sè un taccuino che c’è un omicidio che il cavallo ancora non c’è e c’è invece un serio problema di soldi. E poi c’è la scrittura di Malvaldi, come i grandi, i bravi veri, riesce a cambiare restando sè stesso. L’ironia rimane la stessa, sia che parli di vecchietti che ci racconti di una vacanza gastronomica o che imbastisca un giallo su e con Leonardo da Vinci, l’impianto narrativo è perfetto, il plot giallo scorre perfettamente. Un romanzo storico in cui scopriamo che il problema del traffico era già presente nel 1400 ma non solo. Difficile da descrivere quello che fa Malvaldi in questo romanzo, (ah per inciso si intitola La misura dell’uomo) che è poi quello che fa sempre ma in modo diverso. Scrive su due piani, in uno si muove fra ciottoli e polvere fra cene coi nani buffoni e congiure, nell’altro si muove nel presente, il divertimento sta nel non far capire al lettore, se dal passato racconta il futuro o viceversa. Per ultimo segnalo una chicca, in un romanzo che parla di enigmi, usa un gioco linguistico (che viene anche lui da lontano), facendo iniziare ogni paragrafo legandolo al precedente, vuoi con le parole vuoi con i concetti, sì, esattamente come nelle cornici concentriche o meglio ancora nel Bersaglio (quelli della Settimana Enigmistica). Prendi una cultura vastissima (e mi tengo bassa), una dose di sense of humor che sarebbe sufficiente per tre, lo studio accurato dell’argomento e un talento raro, mescola il tutto in un chimico allampanato e dall’aria stralunata et voilà mesdames e mosssieurs, lo scrittore è servito. Ah non so se vi è chiaro, ma non leggerlo sarebbe un delitto.

Berselli e le scimmie che cadono dagli alberi

No è che oggi, fra i ricordi di FB, c’era quello di una delle esperienze più assurde e gradevoli che abbia fatto. Presentare (con Massimo Sesena), il folle Berselli. E allora ho detto, ma cià che magari qualcuno non lo ha letto e gli facciamo venire la voglia.
“Anche le scimmie cadono dagli alberi” oltre al titolo di questo libro è, o almeno così ci viene raccontato, un proverbio giapponese la cui morale è che nessuno è perfetto, a tutti può succedere di sbagliare. L’errore in cui incappa Samuel è innamorarsi. Dopo una vita dedicata scientemente al cazzeggio si innamora dell’unica donna da cui dovrebbe stare lontano, il perché naturalmente si scoprirà con la lettura.
Chi pensi al Berselli di Non fare la cosa giusta potrebbe in un primo momento restare sconcertato da questo romanzo che è lontanissimo da un noir, secondo i canoni, ma nel contenuto ha una sorpresa. Ironia sarcasmo e a prima vista leggerezza sembrano i registri con cui Berselli affronta la vita di Samuel, in realtà va molto più a fondo, c’è una chiave di lettura che va oltre, che ci presenta un giovane di oggi, “vittima” della superficialità che è la cifra caratteristica del presente. C’è in questo romanzo una sorta di disincanto con cui Samuel affronta un mondo fatto di apparenze, a cui si è adattato come un camaleonte, spiazzando il lettore quando in un certo senso confessa la consapevolezza che non potrà durare per sempre. Che prima o poi dovrà adattarsi anche a diventare adulto in toto. Certamente il passaggio non sarà per forza legato alle convenzioni, forse non prevederà un matrimonio e dei figli, ma sicuramente l’abbandono di una spensieratezza che lui stesso riconosce essere una specie di corazza che si è costruito attorno. Un romanzo che per certi versi ricorda lo sguardo e il linguaggio di David Foster Wallace

I colori dell’incendio – La tavolozza di Lemaitre è pù ricca di un arcobaleno

Lo inizi e ti viene da ridere, ti sembra di essere in una sceneggiatura dei Monty Python, non è possibile che la sfiga sia così accanita. Poi ti rendi conto che stai leggendo la descrizione di una tragedia e ti chiedi come cavolo sia possibile che ti scappasse da ridere. La storia continua e vai avanti senza più pensare. Fedele al suo nome questo signore francese usa le parole come un pittore per imprimere sulla carta anzichè sulla tela, ogni sfaccettatura possibile e immaginabile dei suoi personaggi. Alcuni orribili, talmente sporchi da farti rivalutare la dignità dello scarabeo stercorario, altri profondi come abissi insondabili (che però lui riesce a sondare), altri che non riesci a inquadrare. Ma gli uni e gli altri ti attanagliano senza tregua, macini riga dopo riga facendo il tifo, diventi giudice e contemporaneamente avvocato dell’accusa e della difesa. Notevole anche lo spirito “femminista” anche se il termine non è quello giusto. Le donne sono le vere protagoniste dei romanzi di Lemaitre, ci sono tutte quelle che si possono immaginare, dalla santa alla puttana, ognuna cl suo vissuto, ognuna specchio di una parte di noi. In una parola, imperdibile.

Quando hai voglia di dire ma il tempo è tiranno – Lansdale Deaver e Crovi tutti in una volta

Ancora Hap e Leonard ancora sopra le righe, per protesta per denunciare un sistema che va avanti indisturbato da decenni, da sempre direi. Un’altra storiaccia che vede buoni e cattivi scambiarsi i ruoli senza soluzione di continuità. Personalmente sono un po’ sufa di sentir parlare di razzismo, in qualunque modo me lo raccontino, ma Lansdale riesce a farmela andar giù. Sarà perchè Leonard, sia pure (spesso), sia troppo (tutto), alla fine insieme al socio riesce a farsi perdonare.

Leggo commenti del tipo “non è più il Deaver di una volta” “troppo tecnico” e altre simili amenità, ora non posso fare la sintesi che ho in mente perchè sarebbe un clamoroso spoiler, e io non ne faccio, però facciamo così, avete presente quei disegni che ne contengono altri 8 che vedi solo se cambi prospettiva? Quelli dove vedi un vaso o due volti uno di fronte all’altro? Ecco, Il taglio di Dio (pubblicato da Rizzoli) è esattamente così, sembra una cosa e poi scopri che potrebbe essere quello ma anche qualcos’altro e alla fine quel qualcosa e anche quell’altro, sono esattamente le facce di un diamante tagliato alla perfezione, per riflettere la luce nel modo migliore possibile. Il romanzo è esattamente questo, un diamante con un taglio mai eseguito, può lasciare perplessi il primo decimo di secondo, ma i riflessi che lancia quando lo colpisce la luce è assolutamente speciale e fantastica.
Provare a spiegare chi è Luca Crovi è impresa ardua, è un giornalista è laureato in filosofia è autore di saggi è fumettista (in tutte le accezioni possibili), insomma è uno che ne sa, ne sa tante. Il perchè abbia voluto scrivere una non fiction, L’ombra del campione ispirandosi, anzi impersonando De Angelis (autore che in qualche modo subì la censura del fascismo) e scrivendo del suo personaggio, il commissario poeta De Vincenzi, va cercato forse nel suo amore per Milano, una città di cui si crede di conoscere tutto e si scopre che c”è ancora qualcosa che non si sa. Un romanzo con dentro tante storie, in primis quella di Peppino Meazza, di tanti profumi odori suoni e voci, una Storia bella (sulla capacità narrativa non c’è niente da dire, vedi biografia), che riporta indietro a una città e una società che non esiste più, ma che in fondo sarebbe bello ritrovare.

La sedia del custode – Un noir in salsa islamica


Parlare di un libro che attraverso il noir parla di religione è difficile, ancor di più se la religione in questione è l’islam. Oddio lo sarebbe anche se si trattasse di cristianesimo ma forse, preso atto di quello che è successo all’islam negli ultimi decenni è qualcosa che tocca tutti. Il romanzo è un racconto corale che da voce a tutte le “correnti”, ogni accadimento ci viene raccontato dai protagonisti che sono nè più nè meno che lo specchio di quante sfaccettature abbia la religione. Per fare un paragone comprensibile a chi non abbia dimestichezza con una delle tre religioni monoteiste, diciamo che il Corano, così come la Bibbia, è diviso in versetti (sure) e ovviamente i precetti che vi sono contenuti coprono qualunque aspetto della vita umana. Come per il cattolicesimo, molta parte dei fedeli, per le ragioni più svariate ma probabilmente riconducibili tutte al bisogno di avere un riferimento superiore, citano e si attengono ai versetti, avendoli imparati a memoria dagli imam o dai preti, del tutto incapaci di andare oltre l’interpretazione data. Un paese a sè stante il Marocco rispetto al nord Africa, un paese in cui le leggi sono molto poco legate alla religione, ma che, come ci racconta Rita, negli ultimi trent’anni ha subito una regressione terribile. Rita fa la giornalista a Casablanca, è stata cresciuta da una madre legata alle tradizioni islamiche (che sono ahimè molto simili a quelle cattoliche, c’è solo uno sfasamento temporale). Nonostante la madre è cresciuta donna libera, libera dal velo, libera di aver rapporti con gli uomini libera di vestirsi truccarsi leggere e lavorare. Segue un caso di omicidio che per la polizia è palesemente opera di un terrorista, uno che uccide chi sgarra dai precetti del Corano. Le altre voci con cui la Trabelsi mette a confronto le varie facce dell’islam, sono quelle del commissario della figlia di Rita e del terrorista omicida. Un’operazione complessa quella della scrittrice marocchina, raccontare i tanti volti dell’islam, denunciare la strumentalizzazione di una religione per (fra le altre cose), sottodimensionare la figura della donna. Un percorso all’indietro che ahinoi, l’occidente ha sottovalutato e forse anche agevolato, quando nel lontano 1979 e proseguito poi con l’invenzione dei talebani. Un romanzo che è un inno alla libertà e nello stesso tempo si spera, un punto di ripartenza che è quasi sempre una garanzia. Le donne
Non perdetevi
la recensione a cura di Contornidinoir il 30/9
l’intervista all’autrice di MilanoNera

una riflessione sui personaggi de La bottega del giallo

La sedia del custode
Ed. Le Assassine

Dice: è la morte sua. Quella del tortellino è evidentemente nel brodo

Primo romanzo (pubblicato da una CE importante (i precedenti me li sono persi, chiedo scusa e cercherò di rimediare), di Filippo Venturi che di suo è un ristoratore, o meglio un oste, bolognese e come tale un po’ fissato. Non è che gliene puoi fare una colpa, è una cosa genetica. Il protagonista del suo romanzo è a sua volta un oste,
e chi ama i gialli non può fare a meno di pensare a Massimo, il barrista di Pineta. Lui, il toscano, dopo le 11 del mattino si rifiuta di servire i cappuccini, da Emilio Zucchini detto Zucca, scordatevi di mangiare i tortellini al pomodoro. Il tortellino, come da titolo, muore nel brodo e non si deroga – a dire il vero, durante la presentazione di sabato a Milano, sulla Terrazza Red Bull, lo stesso autore ha dichiarato (secondo me incautamente), che al limite limite, si può osare con la panna, ovviamente dissento moltissimo -. Detto questo comunque, parliamo del libro, ne succedono di ogni, una concentrazione di sfighe come capita raramente, cioè dai, due di loro che decidono di approfittare di uno sciopero, per rapinare la stessa filiale della stessa banca alla stessa ora dello stesso giorno, ce ne vuole eh, e il povero Zucchini che, per fortuna, assiste inconsapevole a qualcosa di fondamentale per la soluzione del caso, che non è la rapina ma il rapimento conseguente della sua figlioccia (il come ne consegue ve lo scoprite leggendo il romanzo), ma naturalmente non viene creduto e rischia di brutto. D’altra parte, lo sapeva, non gli veniva la sfoglia come avrebbe dovuto, e si sa che i presagi sono importanti. Ok, non è il capolavoro dell’anno, c’è forse qualcosina da limare, ma davvero è scritto bene, è rocambolesco quanto basta e le esagerate coincidenze che si susseguono, alla fine non sembrano nemmeno tanto esagerate, perchè Venturi le mette insieme un pezzetto alla volta, fino a farti pensare che in fondo, sono perfettamente plausibili. E come dico sempre, se un romanzo si fa leggere in un paio di giorni lavorativi, vuol dire che dei meriti li ha. Ti aspettiamo al prossimo, certi che sarà un altro bel libro con cui passare qualche piacevole ora.

Dopo undici anni, L’oro dei Medici brilla ancora

Era il 2007 quando venne pubblicato quello che era il primo di una nutrita serie di romanzi storici a venire (non l’esordio dell’autrice), dopo undici anni, Tea pubblica la prima edizione digitale di un romanzo in cui si mescolano Storia avventura e giallo, ingredienti che Patrizia Debicke Van Der Noot, utilizza con maestria e competenza per servirci piatti raffinati. Nello specifico ci racconta del complotto ordito ai danni del granduca Ferdinando I, i cui figli vengono rapiti, ed è su questo rapimento, sulla ricerca dei mandanti e la loro salvezza che si dipana il romanzo. Come da titolo ovviamente, i protagonisti sono in realtà la ricchezza e le lotte palesi o intestine per il potere e il denaro, cose che ai Medici, non mancavano di certo. La Debicke, instancabile macchina da guerra, (provate a starle dietro durante un qualsiasi Salone o Festival e vi chiederete dove diamine trova l’energia) appassionata di Storia e di gialli, ha messo insieme le sue passioni e il suo talento per la narrazione, dando vita a romanzi che ti riportano tout curt in secoli lontani e atmosfere antiche. Il sapiente mescolare personaggi realmente esistiti e fatti accaduti, con personaggi di fantasia e accadimenti immaginati, rende i suoi romanzi estremamente godibili, anche per chi, magari lontano dal romanzo storico, ama le trame gialle che imbastisce con estrema precisione. Il consiglio è di prendersi qualche giorno, una poltrona comoda, e di lasciarsi trasportare fra la Toscana e la Corsica, fra le stanze di splendidi palazzi e navi da cui combattere epiche battaglie.

Parliamone prima che – “Fa troppo freddo per morire”

Qualche mese è passato dall’uscita, ma tanto non è che leggiamo a cottimo, sicchè ne parliamo adesso. Una Torino fredda, ma fredda fredda, con la neve e i marciapiedi che luccicano di ghiaccio, un tizio strano, ex poliziotto ex marito ex padre, l’unica cosa che non gli manca, sono i nemici. A onor del vero ha anche qualche amico il nostro Contrera. Sono quasi tutti nella cerchia degli extracomunitari che popolano quasi per intero la Barriera di Milano, un quartiere periferico dove lo straniero è la norma, come del resto in quasi tutte le periferie estreme (indipendentemente da chi le abita). A farla da padrone nel quartiere è il malaffare, droga prostituzione gioco e chi più ne ha più ne metta, e inevitabilmente, con questo deve fare i conti la gente per bene. In mezzo a questo posto che è quasi un confine, si deve muovere il nostro detective, per ritrovare il nipote di Mohamed che, accusato di omicidio, è scomparso. Contrera non è un personaggio nuovissimo, nel senso che ormai inventarsi qualcosa di nuovo è credo impossibile, ma decisamente ben riuscito. Le atmosfere sono centrate, il freddo del titolo c’è tutto, sia quello atmosferico che quello interiore di Contrera, un freddo distacco, la sfiga non ci è andata leggera e lui ci ha messo del suo, ma che ha lasciato intatto il senso dell’umorismo, che diventa una specie di ancora di salvezza, e non ne ha intaccato l’umanità. Niente di eccezionale, ma l’umanità insita in chiunque non sia un sociopatico, un uomo normale che affronta situazioni particolari. Una scrittura fresca e pulita, che scorre liscia portando il lettore fino in fondo con buona soddisfazione, affrontando fra l’altro, un tema difficile e attualissimo come l’integrazione, raccontata in tutte le sue difficoltà, senza indulgere a derive buoniste e ipocrite, ma raccontando il brutto e il buono che sono insiti nell’essere umano. Christian Frascella, che prima di darsi al noir ha scritto dei romanzi per ragazzi, si rivela, per me che non lo conoscevo, davvero una bella scoperta