Vuoto per i Bastardi di Pizzofalcone

Il vuoto per definizione tende a riempirsi, ogni elemento è incline ad espandersi ed occupare lo spazio vuoto. Vale anche nella vita, per gli esseri umani, quando qualcuno ci lascia tentiamo di “sostituirlo/a” velocemente. Ma ci sono vuoti che per quanta roba ci si metta restano devastanti, ci sono vuoti che straziano. Avendo deciso di fare un blog che parla di libri, mi sento in dovere, di scriverne, ma con de Giovanni è sempre più difficile. Cosa vi dico? Che è come sempre eccezionale? Che una volta di più, l’ennesima, ha scritto un romanzo di una cattiveria che non posso definire inaudita solo a causa della cronaca che è ogni giorno più crudele? Eppure come ogni santa volta, te ne accorgi dopo, quando lo hai finito e quel che hai letto è sedimentato. Solo allora realizzi l’enormità di quello che hai letto. Perchè mentre lo leggi ti cattura ad ogni riga, stai in guardia per capire se ti puoi fidare della Rossa (chi è lo scoprite poi da soli eh), ti emozioni e ti inorgoglisci per Aragona, che è balordo ingenuo buffo, ma non stupido e ha un cuore grande. Mentre giri una pagina dopo l’altra ti appassioni e ti ritrovi esattamente dove eri rimasto un anno fa, quando hai chiuso Souvenir con un groppo in gola che è rimasto lì un pezzo e non segui l’indagine, no, bevi avidamente parola dopo parola, riga dopo riga per la necessità di sapere se lui sarà, se lei, se ancora lei, se loro due… de Giovanni dipinge sentimenti, usa tutti i colori, primari e terziari tirandone fuori delle cose bellissime, che in mancanza di altre parole chiamiamo romanzi. E siccome nulla è per caso, mi è capitata sotto gli occhi questa citazione. Con i Bastardi compresi nella gente e aggiungendo qualche sana risata, direi che Dostoesvskij ha detto tutto.

“E tutti si osservano e si saggiano a vicenda con occhi curiosi. Ne viene fuori una sorta di confessione generale. La gente si racconta, si descrive minuziosamente, si analizza davanti al mondo intero, spesso con dolore e sofferenza”..

Fedor Dostoesvskij – 1847

Mio caro serial Killer – Ti (DE)scrivo così mi distraggo un po’

L’abbiamo letta nelle ormai mitiche raccolte a tema di Sellerio, ma un romanzo tutto intero mancava da un po’. A memoria credo un lustro poco più poco meno; Alicia Gimenez Bartlett ci regala una Petra Delicado che personalmente ho trovato un po’ cambiata, in meglio se posso dire la mia (e voglio vedere chi ha il coraggio dire che non posso).
La trama lo sapete già che non sto a raccontarvela, vi dico giusto che per la prima volta, come forse si evince dal titolo, l’ispettore Delicado si trova ad affrontare un serial killer. Lo fa ovviamente con il fido Fermìn Garzòn e l’ingerenza, o almeno così la vivono inizialmente, di un giovane ispettore dei Mossos, tale Roberto Fraile. Vuoi perchè in qualche modo l’ispettore prende il comando della situazione, vuoi che si sente spodestata da un uomo con almeno una ventina d’anni meno di lei e che per giunta adotta la tecnica dei profiler, che contrasta con il buon vecchio metodo a cui lei e Garzon sono abituati, vuoi che l’idea di un serial killer la disturba molto più di un semplice assassino, le indagini partono quasi con un muro contro muro. Sarà la tecnica di Roberto che si fa portare gli hamburger in ufficio, e spulcia nei computers e nei tabulati o saranno le intuizioni della coppia Delgado- Garzon, che perlopiù arrivano fra una tapas e una birretta, a dare la svolta? Questo ve lo scoprite da soli.
Io nel frattempo vi racconto di questa donna che improvvisamente vede nello specchio una cinquantenne con la sua faccia e si chiede se sia un incantesimo malefico o cosa. A questa ignobile scoperta, Petra reagisce con insolita leggerezza, concedendosi una benefica sosta al centro estetico. L’ho trovata cambiata dicevo, nonostante il caso sia parecchio tosto (ma si sa che la Bartlett, un donnino delizioso e dolcissimo, può raccontare cose trucissime), a dispetto di quello scherzo crudele giocatole dallo specchio, è come alleggerita, per carità, non che sia mai stata pesante, ma ha sempre avuto, o almeno io ce l’ho sempre trovata, una certa severità che qui ho percepito mitigata. Le schermaglie verbali con Garzòn, forse per reazione all’invasore che sembra essere tutto d’un pezzo, mi sono sembrate più simili a sciabolate che a duelli in punta di fioretto. Mi è parso che anche il rapporto familiare abbia beneficiato di questa maturazione (perchè poi alla fine di questo eventualmente si tratta), certo che anche la suocera e i figli vogliano partecipare alle indagini e quasi ci riescano, non mi pare fosse mai successo. Se non lo avete ancora fatto leggetelo, se potete venite al Salone per ascoltarla di persona, in ogni caso godetevela perchè autrici che scrivono ottimi gialli, facendoci anche ridere e pensare, non ce ne sono poi tantissime.

L’uomo di casa – Questo sconosciuto

udcDopo l’incursione nel magico mondo delle fiction, torniamo a parlare di libri, anzi di un libro, quello di Romano De Marco. Già ben introdotto nel mondo noir grazie ai romanzi precedenti, con un nome già ben conosciuto, De Marco ha fatto il botto con il suo ultimo lavoro, no non lo dico io, lo dice il numero di recensioni commenti e lettori, tutti positivi tutti entusiasti. E ne abbiamo, sì ovvio che mi ci metto anch’io, ne abbiamo ben d’onde. Nel panorama italiano contiamo un corposo numero di noiristi, quel genere – lo dico per i pochi che potessero non saperlo – che racconta, più o meno bene, più o meno coinvolgendo, la società e i suoi lati oscuri (abusatissima definizione ma non ne trovo di migliori), ma pochi giallisti puri. Il giallo è quel romanzo o racconto in cui c’è un crimine e un investigatore, in cui il lettore si immerge negli indizi che l’autore dissemina per arrivare alla soluzione del mistero. De Marco ha scritto un giallo (smettiamo di fare i fighi e usare la parola thriller che son sinonimi, ci piaccia o no) un giallo dicevo di quelli che ti tengono in tensione dalla prima all’ultima pagina, di quelli che quando li finisci ti lasciano soddisfatto come dopo un buon pranzo o … Vabbè avete capito. Un uomo viene trovato ucciso nella sua auto, i pantaloni calati e la gola squarciata. Il luogo è notoriamente frequentato da prostitute e la logica conclusione è che sia stato un incontro mercenario finito male. E invece no, perchè Alan era un padre di famiglia rispettabile, uno regolare, che non aveva mai dato modo di sospettare che dietro la facciata ci fosse altro che l’uomo che tutti conoscevano, gran lavoratore marito e padre. Sandra, la moglie non si da pace e quando scopre fra le cose di Alan una chiave non riconducibile a serrature note, la rassegnazione a non sapere chi fosse suo marito perde ogni significato e la tensione si rialza a livelli altissimi. Insomma un thriller come non si leggeva da tempo. Accurato nelle descrizioni dei luoghi, in un’America wasp e conservatrice, personaggi puliti e delineati in un controluce che perfeziona i contorni, un romanzo dove due parallele si incontrano per dare al lettore qualche ora di puro piacere.