DI SARDEGNA IN SARDEGNA

Oggi vi accompagno in Sardegna, anzi nella Sardegna di inizio secolo scorso, in quella di oggi vi ci porto fra qualche giorno, per farlo mi faccio aiutare da un autore che amo e che di quella terra è figlio (devoto oserei), pur avendo anche ascendenze continentali).

Nella Cagliari del 1905 è ambientato IL MISFATTO DELLA TONNARA di Francesco Frisco Abate. La protagonista è Clara Simon, la prima giornalista investigativa donna per di più italo cinese, alla sua terza apparizione, più agguerrita che mai e resa più forte dall’immenso dolore di vedersi spegnere la speranza mai sopita di poter conoscere almeno il padre, (la madre è morta dandola alla luce) militare in missione all’estero di cui – all’inizio del romanzo – le viene comunicata la morte in battaglia. Resta che Clara è stata cresciuta dal nonno, un ricco imprenditore navale – status che per inciso le ha agevolato non poco la vita – che le ha dato oltre a tutto l’affetto che ha potuto, l’agio di non dover lavorare per crescere in un tempo in cui era sorte comune, una casa di prestigio, un nome che tutti in città rispettano, il diritto di studiare e scegliere cosa fare. È un personaggio di cui ci si innamora facile, giovane bella determinata e tosta, molto tosta. La trama del romanzo, in cui c’è ovviamente un colpevole da assicurare alla giustizia per aver ridotto in fin di vita una maestra, una suffragetta che sta in prima linea perché le donne abbiano finalmente il diritto di voto (che è poi di fondo il riconoscimento primario di un uguaglianza fra sessi), si srotola, come i precedenti del resto, sulla figura di questa giovane donna che non scende in piazza, ma combatte la sua personale battaglia per ottenere lo stesso risultato, conquistandosi giorno per giorno il rispetto e sempre maggiori riconoscimenti sulle pagine e soprattutto in redazione, fra le autorità, oltreché della gente. Per esplicita ammissione dell’autore, Clara è liberamente ispirata dalle donne della famiglia Abate, che di poco si discostano dal personaggio. Femministe ante litteram, donne che quando i diritti non c’erano, se li sono presi. Insieme al collega e amico svizzero Fassbinder, al carabiniere Saporito, con cui sta inesorabilmente sviluppandosi una storia d’amore, Clara si muove in una città del tutto inaspettata al lettore che approcci il personaggio per la prima volta. Una città che stupisce, piena di commerci università teatri, attività di tutti i tipi, cosmopolita, dove si intrecciano provenienze da tutto il mondo, dove il fermento culturale è palpabile pur convivendo con un’altra città, quella dei lavoratori poveri perché sfruttati, ma che stanno cominciando a dar vita a movimenti sindacali che arriveranno lontano. Abate, oltre all’amore per la sua terra e per il suo lavoro – è giornalista dell’Unione Sarda e Clara scrive su L’Unione – mette, in questo romanzo in particolare, una serie di temi, più che mai attuali, su cui lasciare che l’inconscio rifletta mentre il conscio si gode una gran bella storia. Ma bella vera.

MI TOLGO QUALCHE SASSOLINO

Niente libri niente oroscopi, oggi mi levo un sassolino e non sarà l‘unico.

Il fatto di non avere bandierine su nessun social, di evitare di prendere posizioni, non significa che non abbia delle opinioni ben precise su quello che succede nel mondo, e come dico spesso, ho un solo fegato e cerco di preservarlo, quindi vado a ruota libera, magari può sembrare che mescoli le cose ma non è così, garantisco.

Garlasco: per me è palese che l’indagine della Procura di Pavia e quella di Brescia, si sono incrociate, probabilmente per caso.

Che Stasi sia in galera da innocente, ormai lo darei per scontato. Le opzioni che personalmente mi vengono in mente, non sono molte, anzi è una.

Solo o in compagnia, Le mani nella marmellata, non sono quelle di Stasi, le ragioni a questo punto possono essere mille.

Interesse sessuale – che aveva l’assassino per Chiara – o il fatto che la stessa che era inciampata per caso in qualcosa di sporco che riguardava forse il fratello, all’epoca molto giovane e influenzabile, che faceva talmente schifo che lo avrebbe detto ai genitori, scoperchiando un vespaio di cui probabilmente non sospettava nemmeno l’esistenza.

Un vespaio in cui a vario titolo, si incrociano tante, forse troppe schifezze.

Premesso che sono dell’opinione che laddove ci sia consenso, in ambito sessuale e dintorni, è ammesso quasi tutto, stigmatizzo la pedofilia (che per sua natura esclude il consenso di cui sopra) e il sesso fra consanguinei, non che la questione mi disturbi moralmente, a me fa arricciare i peli e venire l’urto del vomito, ma perché contro natura.

La progenie dei consanguinei alla lunga, si deteriora geneticamente.

La natura ha i suoi modi per dirci cosa sia “giusto” e cosa no.

Dove giusto, sia chiaro, non implica giudizi di tipo morale, ma proprio di biologia spicciola.

Lo scopo del rapporto sessuale, è ovviamente la procreazione, dove non sia possibile, c’è qualcosa di sbagliato.

Torniamo però a bomba, è evidente che ci fossero persone con delle, perdonatemi la parola forse non correttissima, perversioni.

Statisticamente, se sei una persona che agisce nella media, difficilmente ti troverai implicato se non per sbaglio, in vicende che siano – e qui saltiamo piano – illecite quando non illegali.

C’è ovviamente una spiegazione logica, l’ambito delle perversioni o illecità o illegalità, deve necessariamente essere nascosto, muoversi nell’ombra, questo esattamente come succede alla luce del sole, fa sì che le strade si incrocino, ecco perché a mio parere, nell’inchiesta di cui sto parlando, un merdino piccolo piccolo, come possono essere le fantasie, può finire in un disastro e questo in mano a qualcuno che ha altre perversioni o condotte immorali (qui penso ovviamente alla corruzione di magistratura o polizia).

Finisce che per nascondere una cosa se ne nascondano a cascate altre mille, indipendentemente dal grado di schifezza.

Sono una chilavister, una mailoaddicted, una bimba di Brindisi semplice, mi appassiona il crime (sarà mica una perversione anche questa? Ops), ma qui sono costretta ad arrendermi. Nessun autore di thriller noir e compagnia, riuscirebbe a immaginare un ingarbugliamento tale di interesse a tenere nascosta la propria parte. Solo la realtà può farcela.

A noi, a parte il “divertimento” di giocare a Cluedo, rimane solo da aspettare e confidare nell’onestà di chi, scoperchiato per caso il verminaio, abbia il coraggio di distruggerlo, senza guardare in faccia nessuno.

Perché possiamo ritrovare la fiducia nella giustizia, per tutti.

Senza dimenticarci mai, che alla base di tutto il nostro chiacchiericcio, c’è la vita di una giovane donna, stroncata senza pietà e la vita di un giovane uomo che sta pagando per un crimine che quasi sicuramente non ha commesso.

A ESEQUIE AVVENUTE – MASSIMO CARLOTTO IS BACK

“Dove eravamo rimasti?”  Parto non a caso da questa frase. Non leggevamo dell’Alligatore da parecchi anni, almeno 5 ma più probabilmente sono 8.

Lo ritroviamo con il cuore spezzato, come quello del Vecchio Rossini ed entrambi sanno che le ferite diventeranno cicatrici e ogni tanto faranno male. Li ritroviamo che hanno venduto l’appartamento di Padova e comprato una cascina sui colli Euganei, Max ci vive stabilmente, Buratti ci è tornato come un gatto va in una cuccia nascosta a leccarsi le ferite e Rossini lo stesso.

Ognuno a modo suo, con il salame il pane e il vino che Max sta bene attento a non fare mai mancare, e forse – libera interpretazione – anche questo fa parte dell’essere la Memoria cose che riportano a un passato per alcuni mi rendo conto solo iconico. Ma un fuoco, pane salame e un bicchiere di vino, sono il passato che non morirà mai anche per chi non lo ha vissuto. 

Oh, ci sono delle bombe tali in questo romanzo che tante cose, passano un po’ in sordina. Ma sono quelle (credo) per cui Massimo Carlotto scrive.

Perché questo è il noir all’origine, il racconto del sociale che sottotraccia macina la legge, denuncia sociale, quello in cui la trama è collaterale, serve a raccontare altro e in questo Carlotto è davvero un maestro. Se per la gran parte, gli autori di genere e fidatevi che in Italia abbiamo un parterre che resto del mondo spostati, la trama nel corso degli anni, è diventata la parte centrale dei romanzi, per Carlotto no. Lo è per forza, per chi compra i libri e per chi li pubblica, ma non per tutti.

Massimo è sostanzialmente un giornalista d’inchiesta, solo che anziché sui giornali le sue inchieste diventano libri. Non sono inchieste che fanno rumore alla tv le sue, ma riguardano fatti e costumi che a nostra insaputa, influiscono sulle nostre vite.

Riguardano capire la differenza fra legge e Giustizia, che in soldoni vuol dire dormi una vita su una branda oppure hai la coscienza morta, che puzza e marcendo infetta tutto quello che c’è intorno.

Riguardano gli invisibili, quelli involontari, che avrebbero diritto alla dignità, nonostante la vita li abbia messi nella casella dei disperati – dove intendo letteralmente senza speranza – a cui viene negata.

Quelli la cui esistenza ha valore solo per la famiglia e spesso neppure per quella.

Quelli, quelle, che erano figlie mogli madri e diventano carne più o meno fresca da vendere sul bordo di una strada o sui divanetti di un night. E tutti quelli che se ci pensate vi vengono in mente.

Riguardano anche quelli che hanno facce ben visibili, apparentemente pulite, ricchi pseudo ricchi, a cui non manca niente, nemmeno un milione di euro a cui aggiungere un 15% da usare e non dovranno rinunciare a nulla se non forse, a cambiare la macchina una volta in meno.

Quelli che dormono su materassi ben imbottiti in case belle calde d’inverno e fresche d’estate. Quelli che non si sporcano le mani, perché i soldi che maneggiano e con cui comprano anche le vite degli altri, passa da particolari lavanderie – banche cinesi – che gli tolgono la patina sporca e li trasformano in denaro onestamente guadagnato.

Riguardano le conseguenze delle inutili e stupide guerre, che stravolgono le vite della gente, e fanno sì che chi non muore sotto le bombe o i colpi dei cecchini, vada a morire nell’invisibilità, o nelle mani di chi sui morti e sui vivi che quelle guerre producono e lasciano.

Di quella mafia che ormai non vediamo più – se mai l’abbiamo vista – che controlla lo spaccio, sia droga armi vite.

Ecco che allora diventa importante che ci siano uomini come l’Alligatore, come Rossini, come Max “la memoria”, che sì, sono fuori dalle regole, agiscono seguendo un codice morale che è lontano dalle leggi, che adottano un Codice che non è lo stesso dei tribunali.

No, non sto invitando nessuno a farsi giustizia in proprio, quello lasciamo che lo facciano loro, ma impariamo la “lezione” del maestro.

Costi quel che costi, impariamo a guardare quello che ci sta intorno, a farci delle domande, a non accettare passivamente perché non ci tocca. Non è vero, possono e toccano tutti

Davvero quello che vediamo è la realtà? Davvero possiamo continuare a guardare solo dentro il confine del nostro orto? È giusto così o è il momento di vedere quello che per esempio la GdF, sembra non vedere o che le FFOO non fanno (sicuramente con scopi “nobili” alla lunga, ma deleteri nell’immediato)?

Poi ci sarebbe il tema dell’invecchiamento, quello a differenza del riciclaggio tocca tutti i fortunati – gli altri muoiono giovani – e il tema del sociale torna al privato, al personale.

La cascina che hanno comprato i tre, diventa Casa, una parola che ha poco a vedere con muri e porte, ma tanto con il sentirsi al sicuro. Non giudicati, né per come siamo né per come agiamo.

Casa è dove qualcuno ti ama, è anche litigare, non si diventa tutti uguali, ma si impara a convivere con le differenze.

Capite quanta roba c’è in 300 pagine e spicci e perché diventa complicato parlarne?

Rimane solo una cosa sensata da fare: prendere il libro, cercare su Spotify la colonna sonora che l’Alligatore stesso, per mano di Carlotto, ha indicato come accompagnamento, avere vicino una bottiglia o una tazza di quello che più ci piace o conforta e accomodarsi su una poltrona comoda, sul letto sul divano e abbandonarsi al piacere della lettura.

Tanto piove, dove dovete andare?

PS né Carlotto né Einaudi hanno pagato per questo entusiasmo dovuto solo ed esclusivamente alle emozioni che mi sono rimaste dop la lettura. Quindi aggiungo un sincero grazie a entrambi.

APPASSIONATI DI MOTORI, È IL CONSIGLIO GIUSTO

Niente giallo in questo articolo, il libro di cui vi parlo oggi, anzi, che vi consiglio è quello che vedete qui sopra.

Quando l’ALFA ROMEO era MILANO.

Lo consiglio per essere precisa, a quelli che, sono definiti, anzi, si definiscono orgogliosamente, Alfisti. Ma anche a chi è di Milano o lo è diventato negli anni in cui la città aveva davvero il Coeur in man, a chi ama la Storia e scoprirla a tutto tondo, perché sì, parlare che so, delle Guerre mondiali, non è difficile, raccontare quello che le guerre – ma è solo un esempio – hanno provocato nei dettagli, non è cosa da tutti.

In questo libro, c’è un pezzo di Storia d’Italia in generale ma di Milano in particolare, di un’eccellenza che a differenza di altre grandi aziende, permettetemi questo piccolo pensiero personale, non ha usufruito di miliardi a pioggia dai governi.

Si parla della Anonima Lombarda Fabbrica Automobili, ALFA. Ci sono stati anni in cui avere l’Alfa indicava uno status, un modo di vivere, di pensare.

Io per esempio, che non l’ho mai avuta, oltre al destino, se sono viva lo devo alla solidità dell’Alfa 33, fossi stata su un’altra auto qualsiasi, probabilmente non sarei qui a raccontarvi un belino, come si suol dire.

Narra la leggenda, che Gianpaolo Sacchini, uno dei due autori, da bambino, riconoscesse le macchine dal suono del motore e che i motori diventassero in qualche modo fondamentali nella sua vita professionale, era forse inevitabile, è un giornalista professionista, che fa troppe cose per raccontarvele qui. L’altro, Marco Turinetto è un architetto, storico del design, il cui contributo, nella seconda parte del libro, è più legato alla città in sé e al design, che comunque ricordiamolo, è parte integrante sia di Milano che dell’ALFA.

Si parte come dicevo da lontano, dai primissimi del ‘900, quando Milano fu sede dell’EXPO che a differenza di quella che ci ricordiamo tutti a Rho, ebbe il suo centro in zona 8, dove poi sorse la fiera e dove c’era la “strada del Portello” – oggi via Traiano, che corre parallela a viale Certosa – zona rurale che però si collegava con il parco Sempione che per i milanesi è sinonimo di Castello e quindi di cuore della città.

Finita l’expo, rimasero degli spazi a un costo relativamente basso, che non intaccavano la vocazione agricola della zona a sud, e divennero piano piano sede della Milano industriale, proprio a partire dal Portello.

Per raccontare la storia della casa automobilistica, Sacchini ci illustra come l’auto, in generale, fosse inizialmente pensata per lo sport, le prime corse o comunque competizioni, pensate che so, alla Targa Florio o alla Milano Sanremo, che, sorpresa, non è solo la classica di primavera.

Certo all’epoca era uno sport da ricchi, come tante altre cose, ma grazie a tanti fattori, che devo dire sono spiegati con chiarezza, piano piano l’automobile è diventata un oggetto che è parte integrante della vita di quasi tutti.

L’Alfa, nasce quindi a Milano, dalle ceneri di un’altra impresa, il 24 giugno del 1910.  Come poi è diventata Alfa Romeo, chi ci ha lavorato le tappe della sua crescita, con trionfi e cadute, le troverà chi vorrà ascoltare il consiglio. Fra l’altro, oltre che giornalista e creatore di eventi, Sacchini è anche un imprenditore, cosa che gli ha permesso di raccontare la storia di un’azienza, con competenza, ma anche con cognizione di causa nell’analisi degli eventi.

L’unica avvertenza che mi sento di dare, almeno per i non ferratissimi, è di non cercare di star dietro alle date, a meno che non siate dei Pico della Mirandola, ma di lasciarsi trasportare in un’Italia e in una Milano, che è stata fucina di idee, che ha saputo nascere e rinascere mille volte.

Il racconto si ferma agli anni ’80, quando la città si è trasformata nella Milano da bere, ma quella è un’altra storia.

L’UOMO DAGLI OCCHI TRISTI

La recensione vera e propriamente detta, la leggerete su Mangialibri, però per dire tutto quello che c’è ne L’uomo dagli occhi tristi, bisognerebbe scrivere un papiro, un altro libro. C’è il talento, ormai più che conclamato di Piergiorgio nell’ideare la trama “gialla”, ma c’è anche tutta la sensibilità di un uomo che ha imparato, se è vero che le donne vengono da Venere e gli uomini da Marte, non solo il venusiano, ma anche il non detto. Con una straziante semplicità, racconta di madri, dell’amore che una madre può provare e del dolore che questo amore può provocare se viene distrutto. Parla di amicizia, quella che cresce con il tempo, che si perde nei malintesi, nelle omissioni e poi è capace di chiedere scusa, di mostrarsi in tutta la sua potenza. Non parla, non racconta non descrive, ci fa vivere, quella che è in alcuni casi è la normalità e in altri diventa una condizione che può mettere a rischio la vita stessa. E ancora l’amore per la sua terra, un racconto che alterna la bellezza e i tentativi (che paiono eterni), di trasformarla in moneta sonante, stuprandola e poi mettendola in vendita. Ci sono anche cose solo accennate, poche frasi qui è lì, nelle quali se ci soffermiamo un minimo, vediamo tutto il potenziale distruttivo dell’amore malato, quello che rasenta la follia. È tanta roba vero? Non è neanche tutta. Ogni volta che finisco un romanzo di Pulixi, penso che abbia dato il massimo e regolarmente, al romanzo successivo, vengo clamorosamente smentita. Tratteggia personaggi da amare incondizionatamente o da odiare senza mezze misure, poi come un sarto farebbe con un abito su misura, ti fa intravedere un qualcosa di nascosto, che ti scombina tutto e ti fa intravedere la possibilità di una redenzione sempre possibile. Viene solo voglia di ringraziare i maestri che hanno visto quel talento in erba – per chi se lo chiedesse, sì, parlo di Carlotto – gli editori che hanno deciso di puntare su di lui, chi lo ha cresciuto con tanta sensibilità e chi gli sta accanto. Pulixi è la conferma che in questi anni, una cosa di cui possiamo andare fieri in Italia, sono gli autori cosiddetti di genere. Genere speciale.

La pazienza che dovete avere…

C’è una premessa inprescindibile, chi mi segue sa che quindici giorni fa, ho dovuto affrontare una delle cose più dolorose che ci siano nella vita, ho fatto addormentare uno dei due mici, vi lascio immaginare con che stato d’animo mi accingevo a partire (praticamente obbligata da amici impagabili, che avevano ragione). La sera prima, il pulsante di accensione del Kobo, quel pirullino in plastica sul bordo inferiore, finisce di sfracellarsi. Vabbè, la mattina, il treno era alle 8 e spiccioli, ma va anche raggiunta la stazione, lo faccio ripartire ataccandolo al pc. Vi pare che la sfiga potesse abbandonarmi? Giammai, infatti si è riacceso, ma si è anche resettato completamente, perdendo nell’etere la bellezza di 482 titoli. Letti da leggere da consultare. Puf. Scomparsi. Ricarico al volo quello che stavo leggendo (di cui vi parlo fa poco) e via. Morale della favola, parto con sto coso rabberciato ma acceso e se due anni fa il 15 di agosto ero a caccia di un telefono, arrivata in Romagna, si è partite (sia sempre reso grazie a Rosy che è un’amica ma è anche santa), a caccia di un nuovo reader.

La corsa folle in cerca di un posto dove ne avessero almeno due modelli fra cui scegliere, con un caldo che scioglieva i neuroni, un nervoso che mi facevo paura da sola, erano esasperati dal romanzo che stavo leggendo. Mimica di Fitzek. Un pazzo totale ma un talento sterminato. L’idea di non riuscire a finire Mimica mi stava mandando ai pazzi. (Che sarebbe anche stato il posto più adeguato ai personaggi )

La trama di Mimica è una ragnatela in cui si rimane impigliati, inesorabilmente, sapendo che arriverà il ragno e ci mangerà, magari a pezzetti. Ed è esattamente quello che fa, ad ogni pagina la prospettiva si ribalta e se credevi di avere raggiunto il massimo dell’orrore ecco che Fitzek ti porta un po’ più in là e quel che è peggio, ti rendi conto che non solo non ci hai capito niente – i moventi e i possibili colpevoli sono infiniti – ma che fino a quando l’autore non ti svelerà l’arcano, non ci salterai fuori. La scrittura di Fitzek è un turbine, che però non solleva polvere, non c’è confusione pur essendo una montagna russa. Se, faccio fatica a crederlo ma tutto è possibile, è il primo Fitzek della vostra vita, preparatevi perché in men che non si dica, diventerete dipendenti e andrete inesorabilmente a cercare gli altri.

Finito Mimica e ripresami dallo shock, felice del mio nuovo Kobo – che adesso grazie a Dio fanno riparabile – inizio Strani disegni di Uketsu. Ve lo consiglio? Sì a condizione che abbiate già letto autori giapponesi. Se è vero come è vero che ogni autore ha un suo stile, è anche vero che la letteratura nipponica ha un filo condutttore, un fondo comune che – è sempre un’opinione personale, non sparate sul pianista – anche in eventuale assenza di nomi che inevitabilmente ti fanno capire dove sei, permea le narrazioni, indipendentemente dalle trame. Una sorta di pacatezza nel racconto, che non tiene minimamente conto del fatto che si parli di efferati omicidi o di ciliegi che fioriscono. L’altra condizione che ve lo farà amare, è essere appassionati di matematica e della strettissima connessione con il disegno. Se non lo foste, presumo che vi piacerà lo stesso, ma solo dopo averlo finito e averlo lasciato riposare qualche giorno. Difficile spiegare il perché, ma ripensando alla trama, dopo che avete lasciato sedimentare il resto, vi renderete conto di aver letto un bel giallo.

SCENDE LA TEMPERATURA, TORNA LA VOSTRA BLOGGER SCONDIZIONATA

Ahimè, fra il caldo – che lo sapete, per me è come la kriptonite per Superman – la malattia di uno dei mici e la frenesia del lavoro pre chiusura, è un po’ che non posto, vediamo di rimediare, che tanto per leggere c’è sempre tempo e le belle storie, fortunatamente non scadono.

 Oggi vi parlo di due romanzi, ma in realtà di due donne. Così simili e così diverse.

Il pappagallo muto – Rizzoli- è la nuova storia in cui Sara Morozzi, ex agente dei Servizi, a suo sentire, diventa responsabile del pericolo gravissimo che coinvolge una delle persone più importanti della sua vita. Lo Spy Story, genere poco rappresentato in Italia negli ultimi anni, come il noir, racconta quello che non vediamo ma condiziona le vite di tutti. Storie che sono perfette nella costruzione di de Giovanni e maledettamente molto più che veritiere.                      Distinguiamo i piani di lettura, il primo che riguarda ovviamente la storia, sembra in alcuni punti – come i precedenti e come tutte le storie del Genere – impossibile. Esagerazioni letterarie, invenzioni e invece no. Sono storie assolutamente plausibili per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la cronaca. La rappresentazione esatta di una realtà che a vari livelli è impensabile ma esiste. La dimostrazione dell’effetto farfalla, quello per cui un gesto qualunque, anche apparentemente innocuo come un saluto, possa cambiare svariati destini, anche lontanissimi. Prendetelo per quello che è, un romanzo, ma siate consapevoli che quel mondo esiste eccome. Ci sono mille domande da farsi e molte resteranno per il momento senza risposta, ma è bene porsele. Oppure leggetelo senza farvi domande e godetevi solo la meravigliosa scrittura di Maurizio.

Poi c’è Sara, sola anche in mezzo agli altri, poche persone nella sua vita, pochi amori pochi amici, perché lei vive i sentimenti in maniera totalizzante. Ama o odia al 100%. Il resto è indifferenza. O quantomeno sepolto talmente in profondità da sembrare inesistente. Una cosa la muove, il “trionfo” della giustizia. Ho conosciuto una persona come Sara – un po’ meno rigida e che per fortuna non era un agente o ex agente dei Servizi – ma come lei ha pagato ogni scelta fatta in nome del suo rigore morale. Un personaggio pubblico che ancora oggi manca da morire, non solo a me.  E per quanto sembri presuntuoso, la sento così simile a me da essere forse il personaggio che più amo fra quelli di deGio. Sara è un ideale, forse quello che tutti vorremmo riuscire ad essere, senza tempo, senza età, capace di tutto in nome di qualcosa di superiore.

L’altra donna è nuova di zecca nel panorama letterario italiano, non altrettanto la sua “mamma”, Barbara Perna, magistrato in attività, che dopo averci divertito con le storie di Annabella Abbondante, ci presenta l’avvocato Lia Carotenuto, protagonista di Se tu non ridi più – Bompiani – La trama in questo caso, si lega profondamente con la protagonista. Per ragioni che si scoprono poco a poco nel corso della lettura, ha lasciato la professione legale, dedicandosi all’insegnamento, è ancora “segretamente” iscritta all’ordine e molto meno segretamente riconosciuta come uno dei migliori avvocati in circolazione. Per aiutare un’amica tornerà a indossare la toga, sebbene le costi moltissimo. Una donna che ha in comune con Sara il rigore e una dolcezza che pochi intimi le conoscono, oltre a un dolore grosso che custodisce gelosamente. La Perna conosce bene l’ambiente di cui scrive ed è palese, ha un talento per la scrittura che è altrettanto impossibile non riconoscerle, che affianca a una profonda umanità. Mai giudicante, cosa non facile visto l’argomento e lo svolgimento della vicenda, era facile cadere in uno stereotipo, ma accogliente, capace di rapportarsi distinguendo l’affetto dagli obblighi che impone la legge, passando sopra se stessa opponendo solo un debole tentativo di autoprotezione, capace però anche di tornare sulle sue decisioni, facendo sanguinare una ferita che sembra chiusa, ma certamente non è guarita. Non un romanzo semplice, è il classico pugno nello stomaco che non ti aspetti, non a caso il titolo, in chi abbia dimestichezza coi classici, fa suonare un campanello, eppure una lettura che secondo me sarebbe davvero imperdonabile farsi mancare, per la storia, per la scrittura e per il personaggio che senza farsene accorgere, vi entrerà nel cuore.

SI ABBASSANO LE TEMPERATURE E SI ALZA LA VOGLIA DI LEGGERE

Vi lascio qualche consiglio, veloce senza troppo approfondire, ma titoli garantiti, un po’ come andare dall’ortolano di fiducia, perché vi fidate vero?

Einaudi, che devo dire, difficilmente delude – soprattutto con Stile libero – Delitto di benvenuto : Cristina Cassar Scalia, spostandosi indietro di qualche anno, negli anni ’50 ’60, si conferma un’autrice di razza. Scipione Macchiavelli, commissario tolto dalla via Veneto dei locali delle bevute e delle belle donne, affronta una Noto che inevitabilmente sembra arretrata e provinciale ma si rivela alla fine molto diversa da come appare. Belli i nuovi personaggi, ben architettata – ma su queto non c’erano dubbi – l’indagine e la conferma, laddove ce ne fosse bisogno, che sostanzialmente, la gente non cambia mai. Promossa a pieni voti

Sempre per restare su letture che rilassano ma tutto sono tranne che superficiali, consiglio Un cadavere in cucina (l’ultimo nato della serie) ma in generale le indagini del contino Manrico Spinori – con tutti gli altri nomi e cognomi – Il Sostituto Procuratore che (se fossimo innocenti), tutti vorremmo incontrare. È un personaggio strano, emana calma e tranquillità mentre in realtà è bello frizzantantino il ragazzo, affronta il lavoro con la stessa accettazione che ha dovuto applicare alla vita, con una mamma ludopatica, ma simpatica, un figlio adolescente e un ex moglie che…Rispettoso di tutti ma non molla di un centimetro finchè la verità vera non è sul piatto. L’unica cosa che proprio mi fa sanguinare gli occhi (ma la “colpa” non è di de Cataldo credo, gli editor si adeguano al mondo), è l’uso di Ispettora, abbiamo una bella parola come ispettrice, perché adeguarsi al brutto?

Last but not least, vi consiglio fortemente di leggere La Furia, un thriller che “ricalca” meravigliosamente le orme impresse dalla Christie e da Dard senza scopiazzare. Il passaggio dalla pioggia di Londra al sole di un’isoletta della Cicladi avviene in contemporanea al cambiamento psicologico dei personaggi con sorpresa finale davvero ben ben pensata. Ah l’autore è Alex Michaelides e la Furia del titolo uno dei personaggi, certamente inaspettato.

UN PAIO DI TITOLI DI CUI NON PRIVARSI

Carlo Lucarelli non è certamente il primo a rendere protagonista un figlio – nello specifico figlia – di un romanzo, certo che mettere su carta e nella testa di chi legge, così tante emozioni diverse, richiede un certo talento (ma su quello c’erano pochi dubbi) e almeno altre due cose. Non è detto che sia o/o, possono tranquillamente convivere, questo romanzo ne è la prova.                                                                                             Un’enorme sensibilità, che gli permette di raccontare come lo stesso fatto, la stessa tragedia, sia vissuta elaborata e affrontata in modi così diversi da sembrare fatti diversi e uno studio approfondito sulle dinamiche che si innescano in chi viene privato di una parte di sé.                           Cosa diventa il dolore? Dove ti può portare il dolore senza nome – in realtà ho scoperto che una definizione esiste –  Quali abissi può arrivare a toccare un essere umano? Ma più di tutto, la domanda che ti resta dentro e continua a macinare quando meno te lo aspetti è: quante volte vediamo ciò che vogliamo vedere e non la realtà delle cose? Cosa siamo disposti a sacrificare per non vedere la realtà? Almeno tu è un romanzo sconvolgente ma imprescindibile nei tempi in cui viviamo.

Magari imprescindibile non è la parola esatta per questo romanzo di Alessandro Robecchi, però ecco, Il tallone da killer è uno di quei romanzi salvavita che sarebbe bene avere a portata di mano. Avete presente quando vi viene il blocco del lettore? Oppure quando aprite centordici libri e dopo le prime 10 pagine li richiudete sbuffando? Ecco, a quel punto prendete in mano il libriccino blu e si compie la magia. La penna (vabbè la tastiera l’è istess) di Robecchi, si trasforma in una bacchetta magica e la sua mente (deliziosamente perversa), partorisce incantesimi. I due protagonisti li abbiamo già incontrati, se non ricordo male – si fa per dire, lo ricordo benissimo – sono i padri della della famosa frase Hic sunt capannones, definizione perfetta della ubertosa Brianza. Non hanno un nome, ne hanno tantissimi, monouso naturalmente. Robecchi è un autore raffinato, capace di farti sballicare dal ridere usando ironia e paradossi eppure andando a toccare temi che riflettono perfettamente uno dei peggiori quesiti che oggi rappresentano quasi la normalità. Quanto vale la vita di qualcuno? O ancora più precisamente, ha un valore oltre a quello economico? Secondo me, scoprirlo ridendo, non ha prezzo.

A TORINO – AL SALONE – ALL’ANNO PROSSIMO

Torno dal Salone, con gli occhi pieni, le cose belle superano ampiamente le cose brutte, quindi va ancora bene così.

Sento che vorrebbero ampliare, ora, io capisco che quando si fa qualcosa e lo si vede crescere, la spinta a proseguire è forte, ma già così, riesci a fare vedere sentire, fare, un quarto delle cose che ti eri prefissato, figurati se le aumentano.                                                                                                                       Perché siamo onesti, non ce la si fa. Gli autori che hai voglia di ascoltare sono tanti, poi ci sono quelli che becchi per caso, mentre fanno gli interventini volanti e tu stai passando e ti fermi ad ascoltare, semplicemente perché devi.                                                                                                       Gli amici, i noti che conosci, i noti che non conosci ma tanto hai la faccia come il culo, sicché, insomma, al Salone scopri la verità sui sei gradi di separazione.

Questo per me sarà il Salone delle mutande, del volo planare sul gradino della camera, del cingalese che porello… Dei camerieri deliziosi che ti portano a tavola piatti deliziosi, della signora Anna, della caccia al nome del paesino emiliano (provincia di Modena), in cui è nato poro nonno (dello scrittore), un ripasso di geografia che non ve lo dico. Trattavasi di San Felice sul Panaro, lo lascio qui a futura memoria.

Ma anche delle risate, quelle belle, che ti fanno venire il mal di pancia e non smetteresti mai, delle panchine messe l’ultimo giorno (mannaggia a loro), della metropolitana presa in direzione opposta per fregare le milionordici persone che aspettano al Lingotto e della Gerini, che mannaggia a lei, è filtrata sì, di brutto, ma da madre natura! Bella ma bella che, bella. Ma anche della Saponangelo, che è talmente Sara che…Vabbè lo scoprirete.

Insomma un altro anno sulle spalle, un’altra infornata, no scusate, un coacervo, di cose preziose, di persone preziose e di libri in valigia che aspettano di essere letti e poi raccontati a chi li leggerà.

La parola chiave del Lingottto, rimane solo una: grazie, a chi ha diviso e condiviso, grazie, ma ci sarà una parola più bella? Non credo.                                                                                                                                                  

Poi magari su Fb vi racconterò qualcuno degli episodi, vi dico solo che ieri, da sola, alla fermata del tram, ho letto una parola, una sola e ho cominciato a ridere che sembravo pazza. Quindi grazie. È davvero l’unica parola che vagamente, rende l’idea.