DIAMO UN SENSO ALLE CATEGORIE

LUBYA altrimenti detta FASOLIE

foto dal web

Premessa: la seguente ricetta solo se amate l’aglio, altrimenti aspettate la prossima. Che li chiamiate boby, fagiolini o con qualunque altro nome, in estate non mancano mai sulle tavole di tutto il mondo, personalmente questa ricetta tipica di Libano Siria e dintorni, mi piace tantissimo. Gli ingredienti necessari sono davvero molto pochi e la preparazione veloce (nel senso che una volta messi sul fuoco poi non dovete fare altro). Prendete una pentola (non una padella) e fate insaporire dell’olio d’oliva, (se usate quello bono è meglio perché ricordatevi che nei piatti, quel che ci metti lo ritrovi), dell’aglio, tanto aglio. Qui, a seconda del gusto personale potete usarlo come più siete comodi. Io per questo piatto, uso quello in polvere. Abbondante, senza esagerare e a fuoco bassissimo, dopo qualche minuto, aggiungete della carne macinata, bovina mi raccomando non suina. Se la carne è cicciotta ovviamente userete meno olio, se è magrina (che per questa ricetta è meglio) un filo di più. La fate insaporire bene bene mescolando in modo che l’aglio la raggiunga tutta e sempre a fiamma bassa lasciate che perda il sangue. Nel frattempo prendete dei fagiolini, lavati e spuntati, ma lo darei per scontato, e con un coltello o a mano ( se siete dei puristi), li spezzate nella pentola in tocchetti da tre quattro cm. Per la quantità andate un pochino a sentimento, nessun sapore deve prevalere sull’altro quindi io consiglio che nella pentola suddetta i due ingredienti si equivalgano. Il fuoco è ancora acceso quindi la carne sta continuando a cuocere e rilasciare i suoi liquidi che accoglieranno i fagiolini. Voi quando li avete spezzettati tutti  prendete una cucchiarella e mescolate mescolate mescolate come se foste Amanda Sandrelli che parla con Massimo Troisi. A questo punto i tre, aglio carne e fagiolini dovrebbero essere assolutamente amalgamati e pronti a ricevere la passata di pomodoro con cui amorevolmente e generosamente li coprirete, arimescolate rimescolate rimescolate e aggiungete acqua fino a coprire il tutto lasciando quel cm cm e mezzo, ma anche due al di sopra. Io l’ho fatta lunga ma va da se che il tutto ha richiesto forse 10 minuti, facciamo 15 se siete molto lenti, appoggiate il coperchio, se avete quelli di vetro c’è della goduria supplementare. Mettevi sul divano o al pc, giocate col cane/gatto/figlio, telefonate a un’amico/a per una venticinquina di minuti e poi andate a controllare la pentola. Quando l’acqua si sarà consumata del tutto, la carne sarà praticamente sciolta e i fagiolini saranno della giusta consistenza, spegnete il fuoco e aggiungete il sale, occhio, tenetevi bassi che adesso arriva la chicca. Erba cimicina! Ah ah ah, vi vedo eh che fate la faccia schifatissima, tranquilli, quella che da noi si chiama erba cimicina altri non è che il coriandolo. Noi però per questo piatto non useremo le foglie (che oggettivamente hanno un odore che ne giustifica il nome, bensì i semi seccati.) Li trovate in erboristeria sciolti o al supermercato in vasetto (in genere col tappo macina).  Se usate quello in vasetto già macinato, tenete presente che in 400 gr di carne ca. perché il tutto abbia il gusto che deve avere, ce ne dovete mettere un terzo abbondante di vasetto.   Io consiglio di prenderlo in erboristeria. I semi sono vuoti e siccome li vendono a peso, va da sé che spendete meno e macinandolo al momento dell’uso il gusto è molto maggiore.   Un po’ prima che si faccia l’ora di preparare la cena o il pranzo, mettete dell’acqua, non troppa, in una pentola più piccina dell’altra, 4 o 5 dita sino sufficienti e ci buttate dentro a freddo due pugni di riso, il basmati col suo profumo sposa il coriandolo che è una meraviglia, ma anche quello da minestra va bene, a fuoco basso e coperto anche lui, l’acqua deve consumarsi tutta e il riso NON va scolato, magari la prima volta vi incasinate un po’ con le misure ma poi giuro che ci prendete mano. Lo lasciate intepidire. La carne fagiolinata pomodorata e coriandolata lo accoglierà nel piatto come un fratello perduto e ritrovato e voi godrete di molto. Personalmente, con i 400 gr di carne altrettanti di fagiolini, ( più il riso) ci faccio un paio di pasti, ma per i meno golosi ne saltano fuori anche tre.

ELP

Esercito di Liberazione del Pianeta, ELP appunto, un esercito che fa una guerra senza morti né feriti, al massimo qualche rottura di scatole se trovi l’autostrada invasa dai polli; invasione ovviamente riportata a gran voce dagli organi di informazione e grazie alla quale il nostro vicequestore, viene a conoscenza dell’esistenza dell’ELP. Che poi a lui in fondo sti ragazzi piacciono, protestano come possono contro chi gli sta rubando il futuro, creano disagi ma non casini grossi, non sono violenti. Ovviamente questore e PM non sono d’accordo, i casini e i reati se ancora non ci sono stati arriveranno eccetera eccetera. Caterina, rientrata a pieno titolo in questura ad Aosta, è impegnata con una donna che è stata palesemente picchiata  dal marito, ma non denuncia e questa è una di quelle cose che proprio Rocco non regge. È chiaro che non essendoci denuncia non può che abbozzare, ma come privato cittadino nulla gli vieta di “incontrare” per caso il signor Novailloz, lontano da occhi indiscreti e da telecamere, per spiegargli che no, picchiare la moglie non è affatto una bella cosa. Se gli sia entrato in testa, nessuno lo saprà mai perché qualcuno quella stessa notte, lo ammazza. L’indagine è più ramificata di quello che sembra all’inizio, il questore è convinto che centri l’ELP Rocco è sicuro che no. Ma sappiamo, son anche un po’ stufa di dirlo eh, che il nostro, inteso come Manzini, pensa ed elabora delle trame gialle perfette, quindi non ne parliamo. Quello che mi va di condividere invece è il sottile cambiamento di Schiavone. Se ne Le ossa parlano, abbiamo visto un uomo in cui la tristezza, la rabbia, lo schifo nei confronti di una certa umanità era (a buona ragione) a livelli altissimi, qui io l’ho sentito se non pacificato, almeno in via di. Il suo inconscio, sotto forma di Marina, continua a pungolarlo perché ricominci a vivere, perché in qualche modo faccia pace con quel che è stato. La ferita che porta il nome di Sebastiano c’è, ovvio, condivisa con Furio e Brizio ci metterà chissà quanto per rimarginarsi, ammesso che lo faccia e comunque farà male per sempre. Con Caterina stanno riprendendo le misure per vedere se si può essere di nuovo amici e sta cercando di capire se e cosa prova per Sandra.  Sullo sfondo, al di là della oggettiva bravura dell’autore, ci sono i “messaggi” che forse non volutamente, ci danno qualcosa su cui riflettere. Perché forse Schiavone e la sua combriccola, sono davvero la rappresentazione più fedele possibile di quello che siamo o che dovremmo essere tutti. E allora ben venga il lasciarsi avvolgere dal dolore fino ad esaurirlo, ben venga prendere in coraggio a piene mani e dire al mondo “io sono questo” se vi piace bene altrimenti bene lo stesso (Deruta). Si intoni l’alleluja quando si comprende che l’amore è una forza vitale quando non ti schiaccia, se lo fa si trovino forza e coraggio per allontanarlo (D’intino). Si applauda a chi accompagna i figli, frutto dei propri lombi e non, nella ricerca del proprio essere adulti, lasciando che paghino se sbagliano e comunque sostenendoli nelle loro idee. E sia benedetto il cielo (sì lo so la pòesia mi sta prendendo la mano) che ci mette sula strada persone come Manzini, con quel cuore e quel cervello, e un mucchio di cani cattivissimi.

GLI OCCHI DELLA NOTTE

Gli occhi della notte di Marina Visentin  (SEM)                                                               

Marina Visentin – Novara – vive e lavora a Milano, laureata in filosofia è traduttrice, consulente editoriale e collabora con varie testate nazionali scrivendo di cinema. Dopo la fiaba noir Biancaneve, ha scritto La donna della pioggia e Cuore di rabbia.

“La polizia brancola nel buio: l’ho sempre trovato un modo cretino di descrivere le indagini. Ben prima di entrare in polizia. Di entrare a far parte di questa schiera di sfigati che nessuno ama. E che però tutti invocano al momento del bisogno. I malviventi odiano i poliziotti, e anche gli amici carabinieri, ben inteso. Odiano le forze dell’ordine. Ci sta. È logico e sensato. Se ti muovi nell’illegalità, perché diavolo dovresti amare qualcuno che è pagato, tanto o poco che sia, per impedirti di fare proprio quel che vuoi fare? Il punto è che anche gli onesti diffidano dei poliziotti. Tendono all’omertà, al silenzio, alla dissimulazione. Tendono a dire bugie, o perlomeno a non dire proprio tutta la verità.”

Milano, fine novembre.  Manca poco a Sant’Ambrogio. Sono le giornate più buie dell’anno e il freddo viscido si attacca alla pelle. Il vicequestore Giulia ferro è  alle prese con una nuova indagine sulla morte di Cinzia, una bambina di 7 anni, scomparsa all’uscita di scuola e ritrovata, dopo due giorni, in un boschetto ai margini del Parco nord. Il dubbio che sia finita nelle mani dei pedofili è forte anche se ci sono già molti sospettati. Il primo è  l’ex marito di una delle maestre, già condannato a suo tempo per violenze domestiche e revengeporn. Il secondo è un tizio bizzarro che si aggira all’uscita di scuola. Il terzo è il padre di Cinzia stesso, una faccia conosciuta della ‘ndrangheta lombarda. Il quarto è il resto della famiglia allargata composta di altre due sorelle e fidanzatini che si alternano di malavoglia a fare da baby sitter a Cinzia.

Anche stavolta, come era già successo in Cuore di rabbia, il vicequestore può contare sull’aiuto del collega Alfio Russo, il famoso battutaro della questura. Giulia lo conosce da tre anni, e anche se non ride alle sue gags sa che non è un cretino e che è affidabile.

È buio.  Piove.  Il luogo del ritrovamento è stato recintato con del nastro bianco e rosso. Sembra  la terra di nessuno ma lo chiamano Parco delle favole.

La bambina è lì da almeno ventiquattr’ore sentenziail medico legale Pannofino.

A trovarla è stata una coppia di coniugi che portava a spasso il cane. La povera bestia si era intestardita a raspare su una valigia rossa da cui spuntava una scarpa. I due, appena  l’hanno vista hanno subito pensato alla bambina scomparsa, si sono spaventati e hanno chiamato il 112.

Se ogni morte è ingiusta, alcune lo sono più di altre.

La piccola è stata piegata in due nel trolley e potrebbero avercela messa quando era ancora viva.

È  morta soffocata e non è stata violentata. È morta per sbaglio? O è stato un errore commesso durante un rapimento?  Non essendo scomparsa da scuola  la preside non vuole rogne e si presta malvolentieri agli interrogatori. No, a scuola non ha mai notato niente di strano. Giusto  di tanto in tanto Cinzia  aveva crisi di pianto, e i genitori dovevano venire a prenderla. L’ultima a vederla è stata la maestra Belli, che  ha segnalato subito l’ex marito come possibile sospettato. Probabilmente per vendicarsi di lui. Uno che fa perdere la pazienza e che ha messo in rete le foto  nude di lei, ma ha un buon alibi.

L’istinto di Giulia funziona a intermittenza in un ginepraio di false piste e, come in tutte le indagini che si rispettano, le prime ventiquattr’ore sono fondamentali. Da quando è tornata a vivere a Milano il suo lavoro è complicato anche dal rapporto di odio-amore con la città e da un passato da dimenticare.

Un personaggio che vede le cose per quel che sono. Una scrittura divertente, concisa, veloce e piacevole che ti piacerebbe anche se non ti interessasse la storia, ma qui ti interessa anche la storia.

Come avrebbe detto Costanzo: “Consigli per gli acquisti”

Il tempo è tiranno, lo è con me che non lo trovo per raccontarvi i libri belli uno per volta e suppongo anche con altri. Allora che nei fine settimana o dopo il lavoro riuscite a ritagliarvi qualche ora in spiaggia in montagna in giardino, non fatelo senza portarvi dietro uno (o anche tutti) dei libri che vi consiglio. Il valzer dei traditori: posso solo dirvi che la Teruzzi non sbaglia un libro e riesce a scombinare tutte le carte che sono in tavola. Sembrava che Libera avesse finalmente deciso in che direzione andare, soprattutto archiviando qualche remora e invece, l’ordinazione di due (anzi quattro) bouquet la manda in crisi e un assassinio vecchio di anni, coinvolge inaspettatamente le Cairati facendoci scoprire che Vittoria è in fondo molto meno ligia di quanto credessimo e Iole forse molto più saggia di quel che appare. Fa così la Teruzzi, delle sue donne, che sono poi tutte le donne, ci mostra ogni sfaccettatura,  anche le più nascoste e inaspettate.   Restiamo in zona giallo noir, molto molto più noir che giallo, con Rizzoli e i romanzi di Dard. Negli occhi di Marianne è di un nero abissale, fa male, malissimo . Magistrale nel raccontare l’incubo in cui si  trova coinvolto il protagonista (e voce narrante) quasi con distacco, riuscendo comunque a trasmettere esattamente le sensazioni le emozioni e gli stati d’animo che in un classico conflitto Eros – Thanatos, scuotono nel profondo il lettore. Con un triplo tuffo carpiato e avvitato, (motivato dal fatto che senza il suo intervento, io F.  Dard avrei continuato a legarlo solo a Sanatonio e mi sarei persa dei gran romanzi), passiamo al mio amatissimo Malvaldi, uno dei pochissimi autori capace di rendere leggeri avvincenti e divertenti (e in contemporanea non è affatto facile), romanzi storici. Giocando con le parole potrei dirvi che Oscura e celeste scorre come le lancette di un orologio svizzero. Fra l’altro se non fosse che c’è il granduca al posto del PdC medici “generici” anziché virologi a combattere una terribile epidemia e la guerra invece che a Est è più vicina, si potrebbe pensare di essere alle prese con una storia moderna. E forse è questo il pregio che personalmente riconosco all’autore, rendere moderno e contemporaneo Galileo Galilei, comed’altra parte ha già fatto con L’Artusi e con Da Vinci, facendoci delle gran belle lezioni di Storia, romanzandole solo un po’ e facendoci scoprire per esempio, che messer Galileo Galilei aveva delle figlie suore, non esattamente per vocazione e che nel ‘600 combattevano la peste esattamente o quasi, come noi abbiamo fatto col coviddi.                                                                                                                           

SORELLE

Ho iniziato ad amare le spy stories approssimativamente nella seconda metà degli anni ’70 Dossier Odessa, Il giorno dello Sciacallo e poi Ludlum Le Carrè Cruz Smith poi senza nulla togliere a nessuno ho abbandonato il genere, finché de Giovanni, senza dirmi nulla, mi manda un raccontino che ha per protagonista una donna molto particolare.Un’ex agente dei servizi.

Qui scusatemi ma è necessaria una digressione.

Se devo descrivermi a qualcuno, uso questa avvertenza: “puoi farmi qualsiasi cosa, in genere perdono e passo oltre, ma se mi ferisci volontariamente o mi fai un’ingiustizia, non sai come quando e da dove, ma la mia giustizia prima o poi ti trova”. 

Ecco, io in quella donna non particolarmente curata, senza trucco, coi capelli non tinti, abiti che passano inosservati e scarpe comode; che ha rinunciato a tutto per amore, tanto sicura di sé da non aver bisogno  di riconoscimenti, né nel privato né nella carriera, ho trovato qualcosa di me. Amarla è stato inevitabile.

In quel racconto che anticipava Sara al tramonto e sarebbe poi stato pubblicato in Sbirre, c’erano tutti i prodromia un personaggio strepitoso. Ha lavorato in un’unità particolarissima, che esiste anche se sembra inventata, Sara Morozzi è in grado di leggere il labiale ma soprattutto di interpretare ogni minimo gesto; la postura gli sguardi i movimenti delle mani delle spalle. Sara è stata un’arma innescata al servizio della legge e una volta lasciato il servizio, si è messa al servizio della giustizia.

Agli antipodi rispetto a Sara, ancora in servizio c’è Teresa Pandolfi. Tanto l’ex agente passa inosservata quanto invece la collega è attenta ad apparire sempre al top. Trucco e parrucco accurati, esercizio fisico e attenzione al cibo, propensa ad amori passeggeri, possibilmente con uomini più giovani che non richiedano altro impegno che quello fisico.

Diverse come il giorno e la notte, non use a sentirsi spesso, quando si incontrano davanti a un caffè, in genere è per programmare qualche azione “professionale”, perché anche se adesso Teresa ricopre un ruolo apicale, è sempre disponibile a mettersi a disposizione dell’amica. Fino a questo romanzo, era chiaro che fra le due donne, ci fosse un legame forte e certamente con tanto non detto, ma quanto sia profondo,soprattutto sul piano personale, de Giovanni ce lo svela completamente solo in Sorelle. Una mancata risposta a un messaggio, fa scattare (a buona ragione) l’allarme di Sara. Tanti anni densi di tutto, hanno fatto sì che a dispetto delle apparenze, se c’è qualcuno può sapere con certezza che Teresa è in pericolo, quella è Sara. Se qualcuno può intuire quale sia “l’assicurazione” che la poliziotta ha predisposto per i casi di emergenza, è ancora lei.

Sempre più addentro nella spy story, che per quanto romanzata, dovrebbe far venire i brividi, oltre la storia, deGio si è concentrato sulle due donne, ci racconta di come pur apparendo così diverse siano in realtà complementari. Stampella l’una dell’altra a turno, scegliendosi negli anni, perché questo succede con gli amici, ci si sceglie. Non è un caso che (vero o no che sia), quando si vuole esprimere la stima e l’affetto che si ha per qualcuno lo si definisce un fratello o una sorella. Una sorella la senti, che te lo dica o no tu sai come sta, da quello che fa o non fa, dice o non dice. E se non dice e “scompare”, indipendentemente da quello che possono pensare gli altri, tutti gli altri, tu sai se ha bisogno di aiuto.

È questa l’ottica in cui si sviluppa Sorelle, il legame di Sara e Teresa così profondo che solo la donna invisibile capisce dove andare a cercare l’Assicurazione, qualcosa che chiunque lavori in quel particolare ambiente, si premura di nascondere, da giocarsi quando sul piatto c’è la propria vita. E solo a Sara la Pandolfi può mostrarsi “nuda”, senza la corazza che le fanno il trucco i lunghi capelli biondi gli abiti sexy. Solo a Sara è permesso entrare nel cuore dell’algida Teresa, perché per muoversi sull’anima delle persone, bisogna saperle leggere, è necessario aver percorso un pezzo di strada a piedi nudi sui sassi della vita, essere inciampati nello stesso dolore che ti fa sorella o fratello al di là del sangue.

CONSIGLI SPARSI PER ORE BELLE

Tre autori completamente diversi, due Case Editrici e qualche ora (giorno) di buone letture. Janice Hallett, la fascetta la descrive come la nuova Agatha Christie e in versione moderna in effetti ci può stare, è una giornalista e sceneggiatrice inglese, L’assassino è tra le righe è il suo romanzo d’esordio. Spiazzante all’inizio, ci si mette (io ci ho messo) un attimo a entrare nel mood, ma una volta iniziato, non ci si stacca fino alla fine, non tanto per la suspance quanto per la modalità. Come Fami e Charlotte, due studentesse di legge, il lettore affronta la sfida lanciata dal patrocinante per la Corona Roderick Tanner, mediante l’invio della documentazione relativa a un caso, chiedendo di leggerla e riferire le loro impressioni. Quello che non dice loro (né a noi) è quale sia il reato o cosa si debba cercare. Si tratta solo di mail e messaggi i cui mittenti e destinatari appartengono a una piccola comunità, Lockwood, in cui tutti si conoscono e a vario titolo collaborano con la compagnia teatrale locale facendo riferimento alla famiglia più influente (ricca), che si trova improvvisamente ad affrontare la necessità di reperire moltissimo denaro per una cura oncologica disponibile solo negli Stati Uniti. Con Romolo Bugaro, autore Padovano, entriamo nella vita de I ragazzi di sessant’anni, che poi sarebbe uno, un assicuratore forse o un funzionario di banca, con le loro abitudini e piccoli riti che li accompagnano nella presa di coscienza dell’età, i sessant’anni appunto, che ovviamente non si sentono minimamente, il loro sguardo distaccato sulle vite degli altri, di varie età, sul loro matrimonio, le vicende della moglie dei figli. Particolarissimo, tenero e spietato, in una Padova raccontata e scandita dai locali dove fare l’aperitivo, che è quasi rigorosamente uno spritz, fino a che…Ma qui ovviamete mi devo tacere perché qui non si fanno spoiler. Dopo i due Einaudi il consiglio passa a Edizioni Le Assassine, che come sempre riserva qualche piacevole sorpresa. Luisa Valenzuela partendo da un episodio di cronaca, la morte del Procuratore Nisman nel 2015, accusatore della presidentessa Kirchner, inizialmente attribuita a suicidio, ne Il procuratore muore fa incontrare il commissario della polizia federale, Santiago Masachesi – forzatamente pensionato per ragioni politiche – con la sua prima fidanzatina. Si incrociano la dolcezza dei ricordi di due ragazzini, con quello che poi la vita gli ha dato. Qualche rimpianto perché non tutti i sogni si riescono a realizzare, potrebbe forse essere risarcito dalla forza che timidamente, traggono l’una dall’altro, cambiati cresciuti ma delicatamente decisi a realizzare quello che è ancora possibile. Un romanzo, anzi più d’uno, all’interno del romanzo stesso. Si sfiora quello che viene definito Realismo magico, e d’altra parte l’autrice è argentina, ed è il Sud America la patria del genere letterario con Gabriel García Márquez. Un’autrice che sebbene meno nota, che non fa rimpiangere i grandi nomi.

METTICI LA MANO

di MAURIZIO DE GIOVANNI – regia ALESSANDRO D’ALATRI

Immagine da TEATRI.IT

Ogni tanto mi faccio un regalo, ahimè non quanto vorrei, e vado a teatro. Giovedì sono andata al Menotti a vedere Mettici la mano che sarà in scena fino al 2 aprile e poi potrete trovare in giro per la provincia. Il testo è di de Giovanni, protagonisti Maione e Bambinella – all’anagrafe Antonio Milo e Adriano Falivene – che ben conoscono tutti quelli che hanno letto Il commissario Ricciardi o hanno visto la fiction, che si trovano con sorpresa di entrambi, in un sotterraneo a causa di un allarme bombardamento. Lei camuffata da suora e lui con una ragazzina ammanettata. In 90 minuti ti arrivano addosso tutte le emozioni possibili. Le risate consuete, che scaturiscono dai dialoghi fra il femminiello e il brigadere, si alternano in un crescendo scandito dalle bombe sempre più vicine, alla rivelazione del perché Carmelina –Elisabetta Mirra– una vera promessa già mantenuta, detta Melina, sia stata arrestata. A Maione non sembra vero ci sia qualcosa che lui sa e Bambinella no, lei che alterna domande, tentativi di seduzione, implorazioni alla statua della Madonna addolorata, messa lì dai fedeli dopo che la chiesa è stata bombardata e il silenzio ostinato di Melina che quando apre bocca, lo fa per sostenere che la Madonna non esiste e se c’è di sicuro non ha tempo per pensare alle preghiere dei poveri cristi come lei. All’epoca una bestemmia. Nel suo candore non del tutto esente da un filo di furbizia esercitata a fin di bene, Bambinella mentre cerca di carpire informazioni, sostiene che se Melina non si pentirà di quel che ha fatto e non ammetterà davanti alla Vergine che solo col Suo aiuto usciranno vivi da lì, faranno una bruttissima fine. Come sempre nei testi di de Giovanni si trovano suggestioni infinite, non so quale sia il tema portante, perché la storia di Melina – anche se raccontata con delicatezza infinita – è terribile, ma c’è la statua della Madonna, che alla fine è mamma prima di tutto, c’è la legge che in qualche modo si adegua alla giustizia. Non c’è mai giudizio nei racconti di de Giovanni, solo una presa d’atto di quelle che sono le umane vicende e le abitudini – come il rivolgersi alla madonna o a un santo, nei momenti di difficoltà – c’ è solo uno sguardo pieno di pìetas per le nostre piccinerie, c’è il perdono che arriva sempre quando legge e giustizia, come da sempre accade, non coincidono. Poi c’è la bravura degli interpreti, chi non frequenta il teatro deve accontentarsi di quello che vede in televisione, ma se si parla di magia del teatro, una ragione c’è. A teatro non c’è modo di rifare una scena, ogni secondo di pausa ogni sguardo ogni minimo movimento fa la riuscita o meno della performance e i tre in scena sono strepitosi (e per quel che può servire ho visto recitare i più grandi) La regia di D’Alatri, come già avvenne per Gassmann è tarata perfettamente sull’autore. In buona sostanza vogliatevi bene, fatevi regalare quei 90 minuti di magia senza pensarci due volte.

LA GRAZIA DELL’INVERNO

di LOUISE PENNY

Facciamo una premessa, Einaudi, la casa editrice che ha avuto il colpo di genio assoluto di pubblicare in Italia la Penny, ha spiegato da qualche parte (che naturalmente non ricordo ma il succo c’è) il perché non siano pubblicati e tradotti nell’ordine di uscita.                             Quindi, se non l’avete ancora incontrata, partite dal primo della serie che è Natura morta e poi proseguite con La grazia dell’inverno. Potreste chiedervi/mi perché mai dovrei?   Primo perché scrive deliziosamente ed è tradotta magistralmente, capite che già questo sarebbe un buon motivo, poi ha inventato (forse) questo paesino minuscolo, in Quebec, probabilmente a pochi km da Pikax (poi vi dico che Paese è) e Armand Gamache, capo della sûreté du Québec con tutto il cucuzzaro.                                                                                          Il cucuzzaro è composto dal gruppo eterogeneo che di più non saprei immaginare che compone Three Pines e pur essendo così diversi fra loro, hanno creato un’armonia bellissima. La moglie di Gamache, Reine Marie, un’archivista dolce e arguta. I loro figli e il suo vice, i futuri vicini gli agenti, eccetera eccetera. La trama è folle, pazzesca e incredibile ma assolutamente perfetta, poi  le atmosfere le interazioni, insomma tutto. Le vicende narrate hanno un seguito temporale che non è indispensabile seguire, ma a ragion veduta, per le implicazioni che hanno nel complesso, se non avete letto quelli già pubblicati, lasciateli sullo scaffale e seguite l’ordine deciso dall’autrice. Conoscete Lilian Jackson Brown? Se non la conoscete andate a cercare i suoi romanzi perché dopo amerete ancora di più la Penny.

                                                                                                                     È lei che per prima (vale per me ovviamente), mi ha portata ai confini col Canada, nella contea di Moose dove appunto si trova Pickax, dove i delitti più orrendi sono nascosti dal bianco della neve, dove il freddo (meteorologico e non) viene attenuato dal calore dei sentimenti. Dove anche nella modernità dei tempi, restano fondamentali i sentimenti.                                                                                                                                       Reine Marie con il suo accogliere, mi fa pensare alla moglie di Magreit, alla contrapposizione del fuori e del dentro casa, non solo casa Gamache, il male resta fuori e quello che è dentro le persone, come se fosse una magia, viene eliminato e purificato dall’amore, familiare o amicale che sia.                                                                                                           Un’autrice che vale tutto il tempo che le si dedica, che soddisfa i giallofili puri con le trame, e gli amanti dei romanzi tout court. Lontanissima dalla freddezza del giallo cosiddetto nordico, sebbene il Canada non sia esattamente al sud del mondo, ti porta nell’abisso (nello specifico davvero profondo) dei sentimenti umani e poi ti rassicura senza mai essere melensa.                                                   Una di quelle scrittrici che vorresti leggere e rileggere fra un libro e l’altro.

L’ERRORE

Piernicola Silvis

Ci sono libri, romanzi, che leggi con la contezza di immergerti in una storia d’amore, o criminale o in un altro tempo. Poi ci sono romanzi come questo, che ti portano ovunque senza soluzione di continuità lasciandoti alla fine con due certezze. Non esistono colpevoli né innocenti assoluti, tutti potremmo essere tutto, a causa di un momento infinitesimale o per una vita di reiterazioni inconsapevoli.   L’errore che nello specifico risulta essere fatale non è immediatamente identificabile o per meglio dire è attribuibile a più protagonisti e contemporaneamente è talmente banale da non sembrare tale. Nella storia di Pepe Ruggieri e Flo, il lettore passa continuamente da uno stato d’animo all’altro, dalla parte di uno a quella dell’altro, si riconosce a fasi alterne, l’errore diventa di uno  poi dell’altra e ritorna indietro.  Esattamente come nella vita, prendere una posizione netta diventa impossibile salvo che nella pietas che si prova per chi ha commesso quell’errore, senza nemmeno essere cosciente di averlo fatto, perché ogni atto, azione pensiero o omissione, nel momento in cui viene messo in essere diventerà un errore o no, in base al momento e al contesto. Il romanzo è dedicato a quelli che Silvis chiama gli Angeli Violati, che sono le donne abusate, picchiate uccise e lo è a buona ragione, però, per chi è bacato in testa come me, oltre ad essere un gran bel romanzo, diventa un coacervo di domande molto poco politicamente corrette, una valanga di riflessioni e contro riflessioni, che nulla tolgono, anzi, probabilmente rendono più consapevoli dell’importanza del tema di fondo.                                                                            Il che è esattamente quello che chiedo a un romanzo che non sia uno di quelli svuota cervello.                                                                       Silvis è un poliziotto – in quiescenza – che ha svolto nella sua carriera, svariati e diversi incarichi, fino a diventare questore, nel corso degli anni ha affrontato situazioni di ogni tipo, cosa che si riflette inevitabilmente sulla scrittura e nelle storie, evitando l’effetto “cazzata” che ovviamente è il rischio maggiore di chi racconta per interposta persona, ragion per cui le sue storie risultano ancora più coinvolgenti.    Non ha uno stile unico e immediatamente riconoscibile (che nello specifico è un complimento) ma è in grado di adattare la scrittura al racconto; passa da un linguaggio duro e veloce – La pioggia – a una scrittura dolente senza cadere mai nel lamentoso di Storia di una figlia.                                                  In questo libro è quasi tenero, salvo qualche necessaria eccezione, perché tenero e comprensivo è lo sguardo sul dramma che i protagonisti, hanno involontariamente creato, estendendolo a una situazione purtroppo attualissima.     Un romanzo da leggere per mille motivi, per farsi domande, come scritto prima, per capire quato sia facile commettere errori anche di valuazione, e quanto sia importante porsi davanti al problema della violenza di genere con la mente aperta, andando in profondità senza mai perdere di vista il tutto da cui parte il particolare. E se mi è concesso, con la voglia e la seria intenzione di capire che laddove la follia non è prevenibile, tutto il resto molte volte sì.                                                                                                                                                                                                                

È COSì CHE SI MUORE

Correva l’anno 2012 e militavo in quel fantastico gruppo di anobiani (per chi non lo sapesse Anobii è una specie di godreaders ante litteram) che si chiamava Corpi freddi, un chiaro omaggio al genere di letture che ci accomunava. Fra i nomi nuovi o da poco emersi, arrivò anche Giuliano Pasini. Venti corpi nella neve fu una rivelazione. Una scrittura pulita e mai banale che ti porta ad andare avanti senza togliere il fiato, ma non ti lascia andare, la capacità di entrare in punta di piedi in argomenti delicatissimi, come poi ha dimostrato nei romanzi successivi e un personaggio strano. Non del tutto nuova come idea ma declinata in maniera diversa, che lo rende unico.                                                                           Roberto Serra è a capo del più piccolo commissariato d’Italia, lo era quando nel 1995 si consumò la tragedia raccontata in Venti corpi nella neve e ci è tornato per cercare la pace.  Da ragazzino gli sono stati strappati entrambi i genitori, uccisi mentre erano in auto da uno sconosciuto che ha sparato da una moto, lui era con loro e lo shock gli ha lasciato dei problemi che gli hanno reso la vita davvero difficile, ha dei buchi di memoria che cerca di riempire da tutta la vita. È affetto da uno strano e  indiagnosticabile disturbo che lo porta ad avere delle crisi, facilmente scambiabili per attacchi epilettici, durante i quali quasi come un derviscio, raggiunge uno stato di trance in cui vede (o immagina di vedere) come sono andati i fatti di cui si occupa ma non solo. È una condanna La danza – così ha soprannominato il disturbo – che teiene nascosta a tutti, che ha mandato in frantumi il suo matrimonio, arriva inaspettata ed è preceduta da un sentore di fiori marci, prende il controllo sul suo corpo che comincia a girare e fare movimenti inconsulti durante i quali vede cose che non sempre riesce a decifrare. Gli attacchi arrivano all’improvviso, gli lasciano appena il tempo di capire che sta per succedere e lo lasciano stremato, ogni volta sempre più spaventato di aver in qualche modo potuto trasmettere questa maledizione alla figlia.     A Case Rosse sull’appennino modenese, ambientazione naturale per l’autore che è concittadino di Blasco, oltre a Serra è stata inviata, come misura disciplinare, Rubina Tonelli che durante il servizio è solo un po’ intemperante ma  nel suo privato si porta dei fardelli pesanti come quelli del suo capo e altrettanto segreti, che la trasformano in qualcuno di competamente diverso. Nonostante il paese raggiunga a malapena il migliaio di abitanti, che significa conoscersi e sapere più o meno tutto di tutti, il Burdigòn, al secolo Eros Bagnaroli viene ucciso e la sua cascina incendiata.           L’indagine è, se così si può dire, alleggerita dai divertenti contrasti fra la Tonelli, che viene dalla Romagna (se state per obiettare che la regione è una, sappiate che vale solo se siete emiliano romagnoli, in quel caso si fa fronte comune, ma in regione, cambia tutto) e la gente del paese; per di più viene da Rimini, il che equivale a dire che per lei stare a Case Rosse è come stare in un cimitero.                                                                                                                                                Ai suoi ripetuti “Cùt vègna” (“che ti venga” a cui segue un sottinteso “cancher” che a dispetto di tutto è un intercalare del tutto esente da rancore) si alternano le obiezioni e il classico che sei un “ed fora”, un forestiero. Qualcuno che non può capire le logiche del paese. Per non parlare dei soprannomi, che se nei paesi, in città è diverso ovviamente, in generale, ad esser chiamati col proprio nome sono in pochi, nei paesini, nessuno e ogni soprannome ha una storia, una motivazione incomprensibile a chi venga da fuori. Le ambientazioni sono splendide, personalmente mi riportano alla mente autori che amo, Guareschi Varesi Guccini e Macchiavelli, un mondo che sembra lontano e invece è appena dietro la curva.                                                                          Una natura a volte inospitale ma affascinante, con un retrogusto di cose passate, che si rispecchia anche nella gente, perché come diceva zia Agatha, l’essere umano non cambia. Una storia bella tosta, ottimo biglietto da visita per chi non conoscesse l’autore, un graditissimo ritorno, con tanti fatti nuove che scopriamo insieme al commissario su lui stesso, per chi ha già incontrato e amato Roberto Serra. Ben tornato Giuliano Pasini, adesso non facciamo che ci fai aspettare anni e anni per il prossimo.