A TORINO – AL SALONE – ALL’ANNO PROSSIMO

Torno dal Salone, con gli occhi pieni, le cose belle superano ampiamente le cose brutte, quindi va ancora bene così.

Sento che vorrebbero ampliare, ora, io capisco che quando si fa qualcosa e lo si vede crescere, la spinta a proseguire è forte, ma già così, riesci a fare vedere sentire, fare, un quarto delle cose che ti eri prefissato, figurati se le aumentano.                                                                                                                       Perché siamo onesti, non ce la si fa. Gli autori che hai voglia di ascoltare sono tanti, poi ci sono quelli che becchi per caso, mentre fanno gli interventini volanti e tu stai passando e ti fermi ad ascoltare, semplicemente perché devi.                                                                                                       Gli amici, i noti che conosci, i noti che non conosci ma tanto hai la faccia come il culo, sicché, insomma, al Salone scopri la verità sui sei gradi di separazione.

Questo per me sarà il Salone delle mutande, del volo planare sul gradino della camera, del cingalese che porello… Dei camerieri deliziosi che ti portano a tavola piatti deliziosi, della signora Anna, della caccia al nome del paesino emiliano (provincia di Modena), in cui è nato poro nonno (dello scrittore), un ripasso di geografia che non ve lo dico. Trattavasi di San Felice sul Panaro, lo lascio qui a futura memoria.

Ma anche delle risate, quelle belle, che ti fanno venire il mal di pancia e non smetteresti mai, delle panchine messe l’ultimo giorno (mannaggia a loro), della metropolitana presa in direzione opposta per fregare le milionordici persone che aspettano al Lingotto e della Gerini, che mannaggia a lei, è filtrata sì, di brutto, ma da madre natura! Bella ma bella che, bella. Ma anche della Saponangelo, che è talmente Sara che…Vabbè lo scoprirete.

Insomma un altro anno sulle spalle, un’altra infornata, no scusate, un coacervo, di cose preziose, di persone preziose e di libri in valigia che aspettano di essere letti e poi raccontati a chi li leggerà.

La parola chiave del Lingottto, rimane solo una: grazie, a chi ha diviso e condiviso, grazie, ma ci sarà una parola più bella? Non credo.                                                                                                                                                  

Poi magari su Fb vi racconterò qualcuno degli episodi, vi dico solo che ieri, da sola, alla fermata del tram, ho letto una parola, una sola e ho cominciato a ridere che sembravo pazza. Quindi grazie. È davvero l’unica parola che vagamente, rende l’idea.

UN PO’ DI VELENO E L’ANTIDOTO

Oggi un antidoto e un po’ di veleno, l’antidoto è splendido romanzo, L’attesa di Connelly. Sappiamo quanto è difficile mantenere un livello alto quando si scrivono romanzi seriali, ci sono esempi chiarissimi  di personaggi seriali che dopo anni non riescono più ad avere l’appeal, qualcuno si arrotola su se stesso arrivando ad essere quasi una caricatura. Penso alla Scarpetta, giusto per essere chiari, le cui “avventure” diventano con poche variazioni sempre la stessa, senza contare un particolare che definire irritante è poco, soprattutto perché spesso reiterato nel tempo: se per ribadre che sei di origine italiana, mi dici che hai scongelato un meraviglioso sugo alla marinara (credo a base di aglio e forse un calamaro), fatto con le tue mani sante, metti sulla pasta un mezzo kg di parmigiano, lo accompagni col pane all’aglio e lo innaffi con un corposo chianti, capisci bene che sei se non altro passibile di denuncia per oltraggio alla Costituzione. A parte lei comunque, credo che ogni lettore ne troverà almeno altri tre o quattro. Poi ci sono quegli autori graziati da Dio che li ha muniti di un talento che non gli fa sbagliare un colpo. Uno di questi è Connelly. In tanti, tantissimi, abbiamo amato Harry Bosch da subito, era il 1992 ed esordiva ne La memoria del topo, un personaggio fuori dalle righe, un ribelle non sempre capace di stare nei ranghi, sempre sul filo ma sempre in grado di aggiustare il tiro. Abbiamo palpitato per le sue vicende personali, fatto il tifo perché riuscisse a costruire un rapporto con Maddie – la figlia avuta dalla ex moglie – trepidato per i tanti cambiamenti di dipartimento e infine tremato quando è sato colpito dalla leucemia. In ogni romanzo, Connelly, è stato capace di calibrare la presenza e le assenze, il grado di protagonismo, ceduto al fratellastro o ai vari partner. In questo ultimo romanzo, L’attesa, la presenza del detective è ridotta all’osso o poco più, ma come nelle migliori bistecche, la carne intorno all’osso è la più saporita. Protagonista, anzi, protagoniste, sono Renée Ballard, e Maddie (che per inciso è entrata in polizia). Storia perfettamente equilibrata, più casi che si intrecciano e la presenza di Bosch, ormai in pensione, diventa il fulcro senza togliere una briciola. Un uomo ormai fragile ma che non molla di un centimetro quando si tratta di fare giustizia e di proteggere le persone che ama e/o con cui lavora.

SETTE VITE COME I LIBRI

Post influenza, ragazzi ma davvero quest’anno bastardissima, giustamente mi hanno chiamata per un piccolo intervento programmato, niente di che ma con obbligo/consiglio di stare il più ferma possibile. Ok la televisione ok qualche ora la dedichi al pc per eventuali emergenze di lavoro, ma se devi stare ferma con la gamba in scarico, cosa c’è di meglio che un buon libro?

Mi è andata di lusso, siamo onesti, il giorno prima del ricovero è uscito 7 vite come i libri, l’ultima fatica di Serena Venditto.

Posso dire che a me certe menti fanno “paura”? Lei, come la Perna come i Bruzzaldi – sia chiaro che sono tre nomi su 100 che valgono la spesa – hanno questa capacità di imbastire delle trame gialle che non hanno una sbavatura neanche a cercarla col lanternino e contemporaneamente (nell’ordine): svuotarmi la testa da qualsivoglia pensiero – inchiodarmi alle pagine, non c’è verso di mollarli – divertirmi e finirli senza mai deludermi. Se vi pare poco… Certo c’è qualche esagerazione in alcune scene, quello zicchettino di surreale che però riesce a sembrare perfettamente naturale, il tutto unito a un naturale (credo che dipenda dalla genetica territoriale) senso dell’umorismo e della tragedia. Lo so, sembra un parolone ma parliamo pur sempre di un giallo, c’è pur sempre il morto e quando qualcuno muore, per qualunque ragione, è sempre una tragedia. Ecco, raccontare le morti, quello che le ha provocate, a volte partendo da lontano, richiede talento e probabilmente, credo, un radicato bisogno di giustizia che Serena Venditto ha riversato sui 5 di via Atri, sì sì, anche Mycroft ha una spiccata idiosincrasia per le cose brutte. Ah, per inciso, anche senza il morto, le tragedie sono tali per chi le vive, anche quando si tratta di un amore che finisce, una bocciatura o la perdita del lavoro. Sono consapevole di non avervi raccontato niente della trama, non lo faccio mai e non si capisce perché dovrei iniziare adesso. Comunque, Malù diventa all’intrasatto una sostituta libraia e in un libro usato, perché quelli vende la libreria, trova delle pagine macchiate di sangue. E non è sangue vecchio, come arriva al proprietario del libro del sangue e del come e perché…Oh, ve lo dovete leggere.

PS – ho linkato il nome anche se la pagina porta a wikipedia in spagnolo, dio sa perché, ma se non la conosceste, lì trovate tutti i titoli, perché non so se vi è chiaro, ma ci tengo proprio che la conosciate.

UN GROSSO SI E UN “ANCHE NO”

In attesa tornare in forma, (ma quanto è lunga la forma influenzale quest’anno) vado a raccontarvi un po’ di quello che ho letto e cosa ne penso.

Ordunque, c’è ovviamente Donato Carrisi, con La casa dei silenzi, sempre più estremo se così vogliamo dire, epperò, siccome lo conosco da tanto tempo, so che prima di mettere qualcosa nelle pagine di un libro, si documenta fino all’ultima lettera, pe quanto folle possa sembrare quello che racconta, tocca crederci. Non che faccia testo, ma a me è piaciuto molto, più dei precedenti. Ancora Pietro Gerber e il suo rapporto con i bambini che cerca di aiutare, i metodi a volte possono sembrare estremi, in realtà di estremo ed eccezionale, c’è solo la sua bravura nel creare l’atmosfera in cui accadono le cose. Cupe, capaci di metterci in una condizione di tensione a priori, ovviamente questo fa sì che anche la cosa più banale risulti ammantata da un sintomatico mistero. Last but not least, il tema di fondo, l’abuso, più che mai attuale, più di sempre trattato con delicatezza ma di una forza prepotente. Se lo amate, non lasciatelo sullo scaffale dei non letti a lungo, concedetevi qualche ora e immergetevi in quella splendida follia che riesce sempre a creare.

C’è un romanzo che invece potete tranquillamente lasciar attendere, eh sì, lei, la superanatomoatologa, zia di un genio e sposata con il top dei servizi segreti nonché partner del buzzurrissimo Pete Marino – che per inciso è anche suo cognato – Non ce la fa. Io ogni tanto ripenso al primo anatomopatologo della fiction, ve lo ricordate il dottor Quincy? Buona che avesse un microscopio, ma quanto lo abbiamo amato. Ora, per carità, la scienza va avanti il progresso e la grandeur americana, ma dio santo. Ci sono le auto, ma no, l’ineffabile Lucy si sposta solo in elicottero – e che elicotteri – indossa gli occhiali smart h24 (perché lei non dorme) e mentre parla con la zia, pilota in mezzo alle tempeste, riceve messaggi inoltra mail controlla le videocamere di sicurezza di almeno 4 posti e magari si fa uno snack. Ok la supereroina ci sta – oddio – ce la facciamo stare, ma l’acerrima nemica che sembra più che altro un’ araba fenice… La arrestano e quella evade (scomparendo), ha sul gobbo qualcosa come una decina di omicidi – noti – ma non è ancora andata a processo definitivamente, probabilmente perché con la pena di morte finirebbe il gioco. Riesce regolarmente a penetrare le barriere di casa Benton Scarpetta, datele le chiavi santo cielo, che facciamo prima. Dulcis in fundo, tralasciando il fatto chesull’omicidio aleggiano gli UFO, questa cosa che la bella Kay deve rimarcare le sue origini italiane, perdonatemi ma du palle. Pasta alla marinara (sugo preparato da lei e congelato, che quando trovi il tempo rimane un mistero glorioso), serviti con abbondante parmigiano e accompagnati da pane all’aglio (ma da quando è una specialità italiana?) e udite udite, un corposo chianti. Mi pare abbastanza no? Patricia Cornwell insomma, la sua Kay Scarpetta e le Cause innaturali, possono tranquillamente attendere che non abbiate niente ma niente di meglio da fare.

“I CERCHI VANNO CHIUSI”

Volver, tornare. E gli amanti del commissario Ricciardi tornano sempre con piacere e un po’ di timore negli anni trenta, senza sapere come se ne usciranno.

Avevamo lasciato Ricciardi ben deciso a mettere in salvo la sua famiglia. Lui Marta e Nelide possono stare tutto sommato tranquilli, ma leggere i nomi della famiglia Colombo, i genitori di Enrica, negli elenchi della questura, attenzionati in quanto di origine ebraica, lo ha spinto a insistere oltre ogni resistenza, per un trasferimento a Fortino. Lì nella campagna cilentana, spera, della guerra ormai imminente, arriveranno solo degli echi e non l’impatto brutale che incombe sulle città e lui tornerà ad essere il barone di Malomonte e non più il commissario che a suo tempo ha suscitato tante chiacchiere. Nelide potrà gestire più agevolmente le terre e i fittavoli, non che da Napoli le sia mai sfuggito qualcosa, ma la sua costante presenza fisica, avrà un peso ancora maggiore. Ma soprattutto Marta potrà continuare a studiare e crescere,mentre per quanto possibile, i Colombo saranno in sicurezza, senza la paura che qualcuno li denunci o li venga a prendere.

Anche i ritorni, sia pure in un luogo familiare, non sono esenti da rischi, a maggior ragione se torni dove è iniziato tutto, nel posto in cui hai deciso che la tua vita sarebbe stata altrove. Dopo poche righe dall’inizio, mi sono fermata con una domanda: ma se non è più un commissario di polizia, non è in città, cosa diamine farà il barone Luigi Alfredo?

La risposta l’ho avuta a fine romanzo.

L’indagine più difficile di tutte, la più dolorosa probabilmente, perché è uno scoprire di sé, di sua madre, la sua dolcissima mamma, il perché di quel suo stare male, sempre presente ma distante, chiusa nella sua camera. Quel suo padre che gli sorride dai muri del castello, di cui però ha pochissimi ricordi, un padre che scopre non perfetto ma coerente con i valori che in qualche modo fanno parte di lui.

In questo romanzo c’è un fascismo sempre meno nascosto, sempre più volgare e palese nelle sue esternazioni, nel suo mostrarsi senza vergogna e ci sono uomini antifascisti per natura, semplicemente essendo contro le ingiustizie, uomini e donne, che combattono con le armi che hanno, che ripudiano la guerra, che vogliono un mondo banalmente soltanto giusto.

L‘indagine c’è, eccome se c’è, così come c’è l’amore, quello a tutto tondo che senza dichiararsi tale, fa sì che si sia tesi alla protezione dell’altro, che sia un parente un amico o qualcuno che fa parte di noi.

Si conclude con una sospensione questo romanzo, anzi più d’una, inevitabile e sacrosanta, perché raccontare cosa potrebbe essere la guerra per Ricciardi sarebbe una crudeltà inutile e dolorosa oltre ogni limite, eppure c’è una speranza, di cui ovviamente non vi racconto.

Abbiamo bisogno di memoria, abbiamo assoluta necessità di riprendere le misure. Di imparare tutti, quanta fatica costi diventare esseri umani, consapevoli, completi, capaci di vivere senza combattersi.

Un piccolo inciso, sapete quanto sia “reale” per me Ricciardi, questo articoletto, recensione, come volete, sta sul desktop da molti giorni, mi sembrava di aver detto niente. Oggi su un profilo social di MdG, è stato pubblicato questo video. era la chiusa che serviva, sì, avevo scritto tutto

«Ricciardi, perché hai deciso di portarmi a Fortino?» «Perché i cerchi si devono chiudere. Ma tu questo lo sai bene. Vero, scrittore?»

https://www.repubblica.it/spettacoli/tv-radio/2024/11/28/video/maurizio_de_giovanni_e_il_commissario_ricciardi_non_so_come_finira_ma_sono_felice_di_non_saperlo-423759207/

Se il link non dovesse funzionare – potrebbe essere un contenuto riservato -provate da qui e scusatemi, vorrei davvero riusciste a vederlo tutti.

https://www.facebook.com/maurizio.degiovanni.7/posts/pfbid02N9gPQGhnoScdPKpkoZ9HF3FWQr3H4LVCpirwWoXtxFUAEqFu9jWhKyQXD2AQpRsGl?notif_id=1732960865743498&notif_t=close_friend_activity&ref=notif

ANCHE SENZA MONTEROSSI…

Uno strano romanzo, che non fa altro, oltre a “divertire” chi lo legge, che rafforzare la consapevolezza che il buon Robecchi, oltre ad essere un autore estremamente ironico, colto e talentuoso, scrive dei gran bei romanzi, ache quando esce dalla comfort zone di Monterossi e amici.

La vicenda dei giorni nostri è una scusa, stavolta non per parlare di qualche male della società, di qualche profonda magagna collettiva come si confà ai noir, bensì per rendere omaggio a un grande giallista del recente passato. Augusto De Angeli. Nato alla fine dell’800 e morto “misteriosamente” durante il fascismo.

Se nel 2018 un altro illustre scrittore (termine più che mai riduttivo), tale Luca Crovi – sì cari sono ironica , dico sempre che da grande voglio fare Luca Crovi – ha scritto un giallo riportando in vita il commissario De Vincenzi, Robecchi si concentra su De Angeli – il suo creatore – sulla sua controversa fine, morì infatti a seguito di un pestaggio poco dopo essere uscito di prigione, dove era stato incarcerato con l’accusa di antifascismo.

Due piccioni con una fava sostanzialmente, anzi tre. Un ottimo romanzo con implicazioni storiche, un doveroso (sempre e da parte di chiunque) a un autore troppo poco ricordato e al suo personaggio. Il tutto condito con un giallo che coinvolge il protagonista, famoso e quasi anziano regista ormai assunto al ruolo di Maestro, nelle indagini per l’omicidio dell’ex proprietaria della dependance in cui vive.

Quello che mi fa amare Robecchi, come altri autori ma lui lo fa con un suo stile che mi piace moltissimo, è come riesca a rappresentare i ceti sociali più poveri, con rispetto e senza pietismo, non è facile per niente e come irrida il fascismo e il crapone, ridicolizzandoli, senza astio manifesto, ma preciso come un bisturi.

Fatti due conti, non perdetevelo, vuoi perché è un bel giallo, vuoi perché riporta in luce un autore troppo spesso sottovalutato, facendo lezioni di Storia che non sembrano lezioni, vuoi perché scrive di sociologia senza farlo sembrare. In alternativa, potete anche leggerlo solo perché un bel romanzo andrebbe sempre letto.

ROCCO S. VICEQUESTORE – AOSTA

È cambiato Rocco, ma tanto. Lo avevamo già intuito, a memoria direi con 7/7/2007, che stava succedendo qualcosa dentro di lui, poi le vicissitudini che hanno stravolto i suoi punti fermi, le storie d’amore che non vuole far decollare, D’Intino che quasi lo ammazza. Però, io avevo una certezza, che la scorza fosse abbastanza spessa da continuare a “proteggerlo”.

Smentita clamorosamente da questo romanzo tanto atteso. Il migliore, il più bello, l’ho sentito dire da molti e non escludo di averlo pensato anch’io appena finito, ma lo abbiamo detto anche di parecchi dei precedenti.

Forse è il più triste, quello sì. Il lavoro resta un’ancora di salvezza, tant’è che si gira mezza Italia senza battere ciglio e a spese sue, per arrivare a una risposta su quell’uomo che hanno investito mentre andava in bicicletta. A buona ragione? Teoricamente sì, il caso lo risolve, ma quasi emblematicamente, resta qualcosa di sospeso.

Quasi una metafora della sua vita.

Sospeso è rimasto il suo rapporto con Marina, che ormai vede sempre più raramente e non considera più qualcosa al di fuori di sé, così come quello che è successo con Sebastiano, nessuna vendetta nessun perdono, ma sappiamo che la cancellazione totale è difficilmente realizzabile. Caterina si è sposata, capitolo chiuso certo, ma trasformare qualcosa nella tua vita ha cambiato tante facce, richiede tempi lunghissimi. Anche la storia con Sandra è sospesa, certo ufficialmente è finita ma lo conosciamo il nostro vicequestore no?

Senza dubbio alcuno, l’impianto giallo è perfetto, un caso generato da un cold case che non si sapeva nemmeno essere stato un case, ma credo che a far la punta al pennino sul giallo, siano rimasti in tre, anche se forse a Manzini frega poco che lo si apprezzi per il giallo i protagonisti o per l’insieme.

Altrettanto senza dubbi, tutti siamo affezionati alla storia, le storie e quelle non ce le fa mancare.

Non so quanto poi un autore ci pensi o gli venga spontaneo in base al suo background, ma certamente, sia il ritorno degli sposini dalla Rodhesia (mi spiace ma così l’ho conosciuta e così per me rimane), sia il matrimonio imminente di Fumagalli e la Gambino, sono amplificatori della solitudine di Rocco, come lo è la virata del maniaco degli evidenziatori, che scopriamo è anche poeta. Tutto sembra sottolineare l’idiosincrasia di Schiavone per la vita dopo Marina. Ma nonostante tutto, con Lupa sempre al suo fianco – che per inciso secondo me ha un ruolo importante nello “spogliamento” di Rocco – quello che arriva è un uomo triste, a volte francamente disperato, che però si lascia vivere con la speranza inespressa di essere ancora capace. Capace di essere un uomo oltre che un vicequestore, capace di ricominciare a vivere, di non lasciare che tutto accada.

Un uomo capace di vedere, quanto sia amato – questa è una speranza mia – da tutti quelli che nonostante lui, gli sono amici.

TORNANO ALL’INTRASATTO

Oggi due libri che si allontanano un po’ dal “solito” dei loro autori. Partiamo con Gaetano Savatteri, il giornalista che una decina d’anni fa ha dato vita a Lamanna e Piccionello, chi sono lo sapete, un ex portavoce ministeriale nonché romanziere uno e il portabandiera delle infradito nel mondo l’altro. Negli omicidi di solito ci inciampano, e mai come stavolta il termine è azzeccato. Saverio e il suo contraltare accompagnano infatti, per un malinteso senso del dovere che nasconde tutt’altro, Lamanna senior e l’amico Mimì in un “pellegrinaggio” tutto interno alla Sicilia. Sebbene non manchino per niente, nello stile di Savatteri, le battute sagaci le situazioni paradossali e surreali, il viaggio è una metafora, concretissima, di una crescita umana. Si sviscera senza darlo a vedere il rapporto genitore figlio, ma anche la mafia, la sua longa manu e la libertà. Tanta roba davvero. Savatteri ci racconta la vita e il mondo, a 360° senza uscire dalla Sicilia.

In un’altra isola invece, Piergiorgio Pulixi sperimenta qualcosa di nuovo. Niente Mazzeo, niente Strega, ma un Nome e il suo gosthwriter. Tralasciando l’unica cosa che non mi è piaciuta (l’uso abbondante del romanesco a inizio romanzo), va detto che come sempre, ha costruito un romanzo perfetto. Un cold case, che come sempre fanno i maledetti, allunga la sua ombra sul presente. I temi sono tanti, dalle magagne dell’editoria a quelle della chiesa e delle FFOO. Oh, come la tosse, il talento non si può nascondere né tacitare, Pulixi ne ha da vendere e lo usa magistralmente. Ogni suo romanzo è un cazzotto dritto nello stomaco, di cui non ti accorgi subito, perché sei distratto dalla bellezza della Sardegna (paesaggi ambienti e caratteri), ma poi lo senti eccome e sono quei cazzotti che ti fanno bene, perché se è vero che si legge per rilassarsi viaggiare cambiare mondo, è anche vero, almeno per quanto mi riguarda, che qualcosa mi deve rimanere, altrimenti mi faccio una canna o una robusta bevuta il cui effetto comincia e finisce lì. Quello che cerco in un romanzo, e lo confermo in toto, Pulixi ce lo mette. Senza se e senza ma. Ah, anche se lo spazio in casa è poco, anche se i libri costano, non mancate di avere in casa almeno un cartaceo su cui farvi fare una dedica da Piergiorgio, rileggerle scalda il cuore come un caminetto acceso nei giorni intorno a Natale.

RIPARTONO I CONSIGLI

Lo so, sono orrendamente ferma da un sacco di tempo con i consigli le recensioni le ricettine e quant’altro, il fatto è che l’articolo sulla ricca Milano, ha fatto sì che chi di dovere si mettesse in moto e a onor del vero, ci sono tante persone da ringraziare. A giorni credo sarà finita la bonifica e lo farò pubblicamente. Nel frattempo vi lascio giù qualche consiglino di lettura. Ne ho in canna circa un quintale in canna, quindi nei prossimi giorni, tenterò di rimettermi in pari.

Partiamo da una riedizione, che poi non so nemmeno se sia corretto come termine, però, se prima di giovedì andate in edicola, insieme a Sorrisi e canzoni TV del 19 settembre, trovate L’ultima mano di burraco di Serena Venditto. Confesso che quando è uscito nel 2019, mi era sfuggito. A prescindere dal fatto che i 5 di via Atri, li adoro, sono una giocatrice incallita del suddetto gioco, ragion per cui mi sono fiondata nel romanzo. Non conoscete i 5? Ok, riassunto breve. In via Atri a Napoli – che è in centro – vivono 4 adulti, non studenti squattrinati che dividono l’appartamento, bensì: Malù, un’archeologa che per inciso è la proprietaria di casa, la sua amica traduttrice anglo italiana Ariel e il di lei fidanzato (ma con stanze separate) Samuel detto Magnum sardo nigeriano – per inciso gran figo -e Kobe un pianista giapponese, il quinto elemento è il gatto nero di Malù Mycroft e il nome dovrebbe già dirvi tutto. Per una serie di ragioni che scoprirete leggendo, sono spesso tutti coinvolti in indagini di polizia. Tutti nel senso che indaga anche il gatto? Se mai ne avete avuto uno, sapete che la risposta è: Eccome! Serena Venditto ha imparato a meraviglia (e di suo ha un bel talento), le regole della scuola napoletana del giallo – sento qualcuno dire ma che è? De Giovanni De Silva Perna , giusto qualche giorno fa de Crescenzo e chiedo scusa a chi sto involontariamente escludendo  –  mescolare il crime il noir, la vita insomma e la leggerezza calviniana con cui solo i napoletani sanno vivere, anche la morte, strappando a tempi determinati e perfetti, anche delle grosse risate. A dirla tutta, è anche molto più efficace di tanti concionamenti e prediche contro il razzismo, che male non fa.

Il secondo romanzo che vi segnalo, è già fuori a qualche mese ed è il secondo romanzo di Janice Hallett, l’autrice inglese che ha inventato un modo decisamente nuovo – se l’hanno fatto prima è stato a mia insaputa – di scrivere gialli. I libri si compongono non di dialoghi e descrizioni ma di mail messaggi WA sms (pochi), articoli di giornali e rapporti di polizia. L’esordio è stato con L’assassino è tra le righe che oltre ad avermi spiazzata per la forma, mi è anche piaciuto molto, questo forse un filino meno – ma se lo consiglio evidentemente il filino è proprio sottile – probabilmente perché la storia è un bel po’ più complessa – però, superato l’impatto iniziale (ho passato ore a chiedermi e cercare sul web)mi sono resa conto che non c’erano riferimenti a fatti realmente accaduti e a quel punto c’ero dentro con tutte le scarpe, ragione per cui Il misterioso caso degli angeli di Alperton, entra di diritto nella pagina dei consigli. Non vi riassumo la trama, ma tanto non lo faccio mai, un po’ per non guastarvi il piacere della lettura, un po’ perché scoprire quale sia il filo da seguire, secondo me è proprio parte del divertimento.

COSE BELLE E UN BAGNO DI UMILTÀ

Oh e dire che pensavo di essere aggiornatissima, abbastanza aggiornata insomma e invece… A Cesenatico noir c’era uno scrittore di cui non avevo mai sentito parlare (e questo è il bagno di umiltà, sta a vedere che non sono onniscente. Ohibò). Marco De Franchi, ma mai eh, non l’ho mai visto taggato o visto il suo nome nei vari festival gialli e noir, nei ringraziamenti, nelle bacheche degli scrittori, niente, buio di qua e di là dalla siepe. Vabbè, il personaggio mi piace e il libro non sembra affatto male, quindi una volta a casa vado on line e prendo l’ebook – che qui ormai lo spazio è davvero finito – e giacché il romanzo che è stato presentato era il secondo, decido che tanto vale partire dal primo. Finisco quello che stavo leggendo (la recensione la troverete su Mangialibri, Eraldo Baldini, mica pizza e fichi) e inizio a leggere La condanna dei viventi, siamo sulle 600 pagine ma in due giorni secchi lo finisco. SBAM. Ma quanto tempo era che non leggevo un giallo giallo. Proprio un classicone, con le indagini fatte come dio comanda, nel senso tecnico cioè, proprio come le fanno polizia e carabinieri, ripartendo da capo indizio dopo indizio se del caso, ribaltando tutto l’acquisito, sbattendo il muso su false piste e intuizioni sbagliate e le frustrazioni di chi deve sottostare alle decisioni di alcuni che non hanno mai visto altro che una scrivania e pensano solo a carriera e burocrazia, spesso intralciando chi si sporcale mani.

Prima di sedermi e parlarvene ci ho pensato un po’, mi sono fatte le domande che sempre bisognerebbe porsi quando si tiene un blog che parla di libri (in prevalenza) e/o si fanno recensioni. Perché mi ha così entusiasmata? Cos’ha di diverso dai romanzi di autori ben più famosi, non me ne vorrà spero l’autore, ben più celebrati. Stai rivedendo le tue convinzioni? Perché chiedendoti da quanto non leggevi un romanzo così, ti contraddici.

No, ognuno dei famosi a cui pensavo, non serve che vi faccia i nomi vero? Ha delle caratteristiche ben precise, che siano la scrittura le ambientazioni le caratteristiche dei personaggi, le trame o l’insieme di queste cose. Sono quasi tutti autori di romanzi seriali, i cui protagonisti hanno un posto ben saldo nel cuore dei lettori e nel gotha della scrittura, leggere ognuno dei loro nuovi romanzi, significa ritrovare una nicchia in cui stiamo comodissimi, come su un materasso in memory foam. Leggere/scoprire un autore nuovo è un’esperienza diversa, come provare un abito nuovo, che nello specifico (il romanzo), ho scoperto essere tagliato come se fosse su misura.

De Franchi anche se nella scrittura bazzica da un bel po’, è tecnicamente un esordiente, quindi trovare un romanzo ineccepibile in ogni suo aspetto, per ogni appassionato di thriller, è una goduria non da poco.

L’idea di partenza non è nuova, mi vengono in mente almeno tre romanzi e altrettanti film che più o meno partono dalla stessa base, degli omicidi che mettono in scena opere d’arte famose, quello che invece è nuovo è l’approccio investigativo, intanto perché da professionista, la descrizione delle procedure di prima mano ha un qualcosa di diverso (senza nulla togliere a chi si serve di esperti consulenti, ma è un fatto acclarato). Poi il racconto vero e proprio, la frustrazione nello scoprire di aver seguito una pista sbagliata, di essersi lasciati depistare, la tenacia nel ripartire da zero e l’incuria quando non peggio delle cosiddette mele marce.

L’altra cosa “nuova” che ho trovato particolarmente confortante, è come sia riuscito a calibrare la parte investigativa e il tema che evidentemente De Franchi voleva trattare – come conferma lui stesso – ossia la malattia mentale che certamente non è materia facile, soprattutto per la precisione nell’inserire sindromi decisamente non comuni. Non aspettatevi niente di leggero, i capitoli si susseguono incalzando la lettura e le scene splatter (lo so, sembra l’ennesima contraddizione ma non lo è) sono scritte con delicatezza, forse inevitabile per chi i morti amazzati, li ha visti davvero. (De Franchi è stato un poliziotto e come commissario capo è stato in forza allo SCO). Boh, probabilmente molti hanno già avuto modo di leggerlo, se così non è stato, non precludetevi l’occasione di scoprire un talento davvero notevole, come al solito, accetto scommesse sul fatto che poi mi ringrazierete.