CI SPOSTIAMO IN GIAPPONE un autore – due romanzi

L’articolo è di Martina Sartor che ringrazio di cuore, appassionata di giallo classico, lettrice più o meno compulsiva e decisamente esperta del genere (ma non solo). Benvenuta e speriamo a presto. Speriamo perché qui, nessuno ha obblighi tranne la scrivente coleichelegge. PS – Si richiede una standing ovation per la cura e la pazienza nel cercare tutti i caratteri speciali.

MATSUMOTO SEICHō

Quando un genere appassiona molto, il lettore si sente spinto ad esplorare nuove frontiere, a scoprire sempre nuovi autori che soddisfino le proprie esigenze. Da appassionata di gialli classici, dopo aver letto tantissimi mystery degli autori più noti, da Agatha Christie in poi, sto riscoprendo molti autori giapponesi che nei decenni passati hanno sfornato gialli ad enigma, psicologici, o comunque di stampo classico appunto, degni di stare accanto agli autori più noti: Keigo Higashino, Yokomizo Seishi, Shimada Sōji e, appunto, Matsumoto Seichō. Matsumoto (in giapponese si antepone sempre il cognome al nome) è stato considerato il Simenon giapponese per la sua prolificità, avendo scritto dagli anni ‘50 in poi oltre trecento romanzi. Quando in libreria ho visto che la collana Il Giallo Mondadori aveva pubblicato due suoi titoli – Agenzia A e La donna che scriveva haiku e altre storie – li ho presi praticamente a occhi chiusi.

AGENZIA A

Un giallo di stampo spiccatamente psicologico, ambientato negli anni immediatamente successivi al dopoguerra giapponese. La giovane Itane Teiko sposa, con un matrimonio combinato come era usanza a quel tempo, Uhara Ken’ichi, manager in un’agenzia pubblicitaria. Ma, subito dopo la luna di miele, durante un viaggio di lavoro, Kenichi scompare. Teiko quindi inizia a cercarlo, ripercorrendone le tracce nel nord del Giappone. La trama è molto radicata nella storia dell’epoca e prende spunto da quegli eventi, riflettendone malinconie, difficoltà e tristezze. Non è un caso che nel Giappone occupato dai soldati americani, alla fine della seconda guerra mondiale la miseria era tale che “nacquero” le cosidette pan pan ragazze che sopravvivevano prostituendosi coi soldati stranieri. Come spesso accade nei gialli giapponesi, l’atmosfera è molto noir. Più che indizi fisici, seguiamo le indagini attraverso i pensieri dei personaggi e le loro elucubrazioni psicologiche. Bellissimo, a questo proposito, il personaggio di Teiko, la giovane moglie: il romanzo è praticamente raccontato attraverso i suoi pensieri. Ci immerge profondamente nella sua psiche, seguiamo le sue ipotesi sulla vita di questo quasi sconosciuto marito. Aiutati dall’abilità di Matsumoto nel ricreare ambienti e scenari naturali, alla fine ci sembra di esser lì con lei, sulle rive del Mar del Giappone, in una sera di burrasca invernale, ripetendo i versi di Allan Poe: Nel suo sepolcro laggiù in riva al marenella sua tomba laggiù dove echeggia il mare!

LA DONNA CHE SCRIVEVA HAIKU E ALTRE STORIE

Anche in La donna che scriveva haiku e altre storie è intatta la grande capacità introspettiva dell’autore che porta in modo magistrale a capire dinamiche e motivazioni degli omicidi. Si tratta di sei racconti, ognuno con protagonista un personaggio particolare di cui scopriamo la vicenda, sia esso la vittima o l’assassino. Rispetto ai romanzi, data l’inevitabile brevità dei racconti, è un po più difficile memorizzare i nomi di luoghi e personaggi, soprattutto se i racconti vengono letti di seguito, come ho fatto io. Prendetelo come un suggerimento. Consigliatissimo leggere anche gli altri titoli (pochi rispetto alla produzione) di Matsumoto già pubblicati in italiano: Tokyo Express, La ragazza del Kyūshū e Come sabbia tra le dita.

Gli ultimi giorni di luce di Billie Scott

“Molte persone usano l’arte come un rifugio. Se trasformi una cosa che ti ferisce in qualcosa di bello che gli altri possono capire, non stai aiutando solo te stesso, ma anche gli altri. Non hai bisogno che ti dica quanto è crudele il mondo. E quanto può essere avvilente la vita di tutti i giorni. Ma se tu, attraversandolo e creando qualcosa di nuovo, non importano le circostanze…aggiungi alla realtà qualcosa che prima non c’era… Questo è incredibile!

Quale è la tua paura più grande? Sicuramente la mia, fra le tante ovviamente, è quella di perdere la vista.

E’ proprio ciò che succede alla protagonista di questo nuovo graphic novel edito da Feltrinelli Comics ‘Gli ultimi giorni di luce di Billie Scott’ , opera prima della fumettista britannica Zoe Thorogood.

Ma andiamo con ordine. Billie Scott è una pittrice solitaria -ha chiuso con amici e famigliari – e vive barricata in una stanza, dedita esclusivamente alla pittura. Un giorno le arriva una lettera in cui una galleria le comunica di essere stata selezionata per una mostra personale dove potrà esporre dieci dipinti. E’ finalmente arrivato il suo momento! E quindi decide di uscire di casa per trarre ispirazione ma ecco che il destino le si mette contro: subisce un’aggressione e nel giro di pochi giorni scopre che è destinata a rimanere cieca entro due settimane.

Da qui prendono il via tutta una serie di avvenimenti che porteranno Billie in giro per Londra alla ricerca di dieci soggetti da ritrarre. Incontrerà molti personaggi durante questo viaggio che le apriranno gli occhi come non mai. Si tratta di molte persone alla deriva ma dotati di tanto ottimismo e forza di volontà che le insegneranno a non arrendersi mai. Tra i vari personaggi che Billie incontra nel suo viaggio spiccano su tutti Iris e Rachel, due ragazze conosciute in momenti diversi e che segneranno profondamente la sua vita.

Per quanto riguarda la parte grafica il graphic novel ha un disegno pulito, reale, riempito di colori caldi e freddi a tratti vivi a tratti spenti ma che creano uno sfondo ideale ad apprezzare ancor di più la trama.

“Dentro ciascuno di noi c’è una mappa, complessa e incompleta di quello che siamo, eravamo e saremo. Questo viaggio assurdo ci accomuna tutti , così rendiamocelo più facile gli uni con gli altri”

LA VITA PAGA IL SABATO

Difficile parlare dei romanzi di Davide Longo, perlomeno di quelli che vedono protagonisti Bramard, che ha lasciato la polizia e Vincenzo Arcadipane, suo allievo che riesce ancora  a “coinvolgerlo”nelle indagini. Quando lessi il secondo, mea culpa sono sempre in ritardo sulla tabella di marcia, rimasi perplessa, non riuscivo a capire cosa ci fosse di strano. Con la lettura di questo quarto capitolo, mi si è illuminata la famosa lampadina. Non c’è il bellone cupo e affascinante che nasconde un oscuro passato, non c’è il genio sottovalutato che risolve il caso inconsapevolmente, non c’è la fragile fanciulla che bisogna salvare non ci sono storie d’amore impossibili, stranelle sì, ma con un loro certo equilibrio. Quello che c’è invece è una squadra di persone normali, con delle vite un po’ ciancicate ( nel caso di Corso molto ciancicata e in altri consapevolmente incasinata) per le quali non danno la colpa al mondo, ognuno di loro ha preso atto dei propri errori, delle proprie sfighe e degli errori altrui senza farne drammi o colpe da espiare per tutta la vita e ognuno fa il suo. Baricco li ha definiti la risposta piemontese a Montalbano, a me francamente non sembra, sono più una netta rappresentazione del territorio in cui sono nati. Solidi come le montagne che circondano Torino, riservati pragmatici, all’apparenza un po’ travet se vogliamo, ma con dei notevoli guizzi che il travet (inteso come immagine retorica ovviamente, massimo rispetto per la categoria a cui peraltro appartengo) non avrà mai nella vita. Al di là dei personaggi e dei comprimari comunque, va sottolineata l’originalità delle trame che spazia davvero a 360° sulle tematiche sociali che inevitabilmente stanno dietro i crimini, ma soprattutto la scrittura. Apparentemente semplice è in realtà (sempre secondo me ovviamente) frutto di una accurata ricerca tesa a sembrare così. Trasuda anche l’amore discreto per la sua regione, le caratteristiche territoriali e caratteriali dei piemontesi che a onor del vero, sbugiardano il vecchio e scorretto detto che vuole il piemontese falso e cortese. Se non li avete letti rimediate, partendo dal primo possibilmente per gustarvi ogni particolare, compresa la sottile irriverente ironia che Longo lascia cadere nei punti giusti.

PRATO ALL’INGLESE

Frédéric Dard è noto ai più per la famosa serie del commissario Sanantonio – 184 volumi – con cui raggiunse il successo ma dagli anni ’40, scrisse più di 300 romanzi tra serie e fuoriserie, alcuni dei veri e propri gioielli noir, che Rizzoli sta proponendo nella collana NeroRizzoli. In Prato all’inglese Jean-Marie Valaise, un rappresentante di calcolatori in vacanza a Juan les Pins si imbatte a causa di uno strano
equivoco in Marjorie Faulks, una donna inglese all’apparenza piuttosto triste. Pure lei è in vacanza da sola e complici il senso di libertà, i bicchieri di champagne e l’inevitabile fascino della Costa Azzurra in cui tutto sembra poter accadere, si invaghiscono l’una dell’altra. Tutto in una notte, perché Marjorie deve ripartire il giorno dopo; si lasciano con la promessa di scriversi. Un paio di giorni e Jean-Marie riceve in albergo una lettera appassionata con cui Marjorie lo invita a raggiungerla senza indugi a Edimburgo, cosa che lui decide di fare partendo immediatamente, spinto anche dalla sua ex, forse, Nicole che lo ha inaspettatamente raggiunto. Arrivato fortunosamente, a causa di uno sciopero non previsto, nella capitale scozzese, la donna che sognava lo stesse aspettando, sembra non essere mai esistita, non si presenta all’appuntamento e sembra non essere in nessun albergo bed & breakfast o casa privata. Valaise non capisce o non vuole credere a quello che sta vivendo e si ritrova in situazioni via via più allucinanti, fino ad entrare in un incubo e scoprire di essere parte di un piano a dir poco machiavellico. Anche in questo romanzo, come i precedenti pubblicati da Rizzoli (Il montacarichiI bastardi vanno all’infernoGli scellerati) l’autore basa
la storia su uno schema ben preciso e principalmente su due personaggi ottimamente caratterizzati, creando un intreccio surreale e folle ma che
alla fine ha una logica più che reale.
Un noir molto scorrevole, arricchito dalle ottime descrizioni paesaggistiche che trasportano il lettore, ci si ritrova a passare dal sole e la spensieratezza quasi irreale della Costa Azzurra al freddo e piovoso clima scozzese, girovagando insieme al protagonista dal centro alla periferia di Edimburgo, in un gioco sempre più folle.
Lo consiglio sicuramente ai lettori di Georges Simenon e di Artur Conan Doyle da cui l’autore sembra aver trovato ispirazione per la realizzazione dei
contesti e per la caratterizzazione dei personaggi investigativi.

“Dal pudore che aveva, si intuiva la profondità del suo dolore. La vera disperazione non ha il coraggio di esprimersi. Chi si confida dimostra di avere ancora qualche riserva di energia. Mentre Marjorie era arrivata al capolinea. Ero entrato nella sua esistenza….”


IL SERPENTE MAIUSCOLO

“Non sono così addentro ai meccanismi editoriali da sapere come funzionano gli acquisti delle Case Editrici per quanto riguarda gli autori stranieri”.  Mi autocito non perché sia stata colta da un attacco fulminante di megalomania (quella ce l’ho sempre) ma perché il virgolettato, che avevo scritto parlando dei romanzi di Louise Penny, si adatta perfettamente anche a questo Serpente maiuscolo. In realtà non so se la scelta sia stata delle CE o dell’autore, fatto sta che Pierre Lemaitre, indiscusso a mio parere genio del noir, giocoliere provetto che usa le parole con rara maestria, crudele grottesco ironico e lucidamente perfido,ci dice che questo è il suo addio al genere. Niente più noir dunque ma ha deciso di celebrare questo addio con il primo noir che ha scritto nell’ormai lontanissimo 1985 o giù di lì. Ha scelto di pubblicarlo senza ammodernarlo, senza praticamente toccarlo. E porca la miseria è strepitoso. La sinossi l’avete letta più o meno dappertutto, io preferisco prlare delle vittime. Chi sarà vittima di Mathilde o di se stesso per ovvie ragioni non lo scrivo, potrebbe essere lei stessa o Henri, suo antico amante e mai sopito amore dai tempi in cui combattevano insieme nella resistenza o il vicino di casa o ancora il poliziotto che ha nella testa i serpenti. Eppure per quanto ormai vecchia (eh già, negli anni ’80 e ’90 i settanta non erano i nuovi cinquanta), decisamente sovrappeso e altrettanto decisamente avviata a un declino mentale, ha ancora abbastanza lucidità da far sì che gli altri non se ne accorgano, o quantomeno restino col dubbio. Soprattutto Henri che da sempre è rimasto oltre all’uomo che ama, e chi se ne frega del fatto che ha avuto un marito e una figlia, il suo comandante. Quello che la conosce meglio di tutti, che sa quanto può essere pericolosa. Ma cos’è a renderla così micidiale? Vi dico la mia, che vale quella di chiunque ovviamente, non è una persona cattiva, è amorale, attenzione non immorale, lei proprio non sa cosa sia il male. Mica ammazza la gente perché ha dei conti in sospeso, beh insomma, diciamo non ammazzava, ma perché è quello che sa fare, per cui la pagano, anche parecchio, e sa di essere la migliore. Il serpente maiuscolo appunto.   Per strano che possa sembrare, è anche una storia d’amore, magari non proprio quello delle favole d’accordo, ma state sulla fiducia, perché alla fine per quanto spiazzante disturbante e crudele, è sempre lui che fa girare il mondo, anche quando lo fa alla rovescia. Lasciatevi avvolgere dalle spire del serpente, vi ammazzerà lasciandovi vivi e se vi pare poco, ne riparliamo dopo che lo avrete finito.

OMICIDIO PER PRINCIPIANTI

Presente il famoso omen nomen? Io non ci sono mai stata ma da come lo descrive Frascella, Barriera di Milano, quartiere periferico di Torino, sembra essere  davvero un posto che chiude, che fa da barriera appunto. A cosa? Al benessere, alla crescita a tutte quelle cose che contraddistinguono le zone “bene”. Un po’ come succede a tanti quartieri di periferia. Meta degli immigrati dal sud quando c’era il lavoro e poi punto di arrivo di tutta l’altra immigrazione più contemporanea, perché i prezzi sono popolari, perché a un colore di pelle o a una lingua in più non ci fa caso nessuno. A me fa venire in mente il milanese Quarto Oggiaro, una volta famigerato e oggi quasi un posto a se stante, dove resistono un paio di sacche (vie) in cui la criminalità la fa da padrone, ma per il resto un piccolo angolo che pur facendo parte della città ne rimane fuori. Un posto dove resistono i piccoli negozi dove tutti sanno tutto e ognuno si fa i fatti suoi. È lì che è nato e cresciuto Contrera, ex poliziotto che per le sue cazzate è stato sbattuto fuori dalla Polizia e si porta dietro il rimorso del suicidio del padre, del proprio divorzio e l’odio di sua figlia. Per campare, perché proprio di campare si parla, fa l’investigatore privato e vive in casa della sorella, adorato dalla stessa e dai nipoti ma odiato dal cognato. Proprio l’amore incondizionato nei confronti di Giada, la nipotina che lo vede come un eroe che tutto può, gli fa promettere che ritroverà la sua compagna di classe, rapita? Scappata? Non si sa. È bastato che il bidello si allontanasse per pochi minuti e della bambina non c’è più traccia. Sempre più stropicciato, più insicuro più incasinato, Contrera a tenersi fuori dai casini proprio non ce la fa, oddio non è che nemmeno ci provi più di tanto, un po’ come se si fosse convinto di essere irrecuperabile, di portare in sé il seme della distruzione. Che sia vero o no, è un personaggio a cui è difficile non affezionarsi, perché sia pure esasperati i suoi difetti le sue mancanze le sue insicurezze, sono quelle di tutti, così come è quella di tutti la fatica di far pace con se stessi, con le conseguenze dei nostri errori e perfino con il “perdono” che ci concede chi ci ama e che sappiamo di avere ferito. Il caso lo risolve quasi per caso, e lo ammette, scoperchiando un verminaio ignobile, ma  questo la gente di Barriera e soprattutto Giada non lo sa e lui rimane quello che toglie un po’ di sporcizia dal quel loro piccolo mondo.  A noi non resta che aspettare di scoprire se deciderà di rimettere in piedi la sua vita o se continuerà a tentare di sopravvivere a se stesso.

LA BANDA DEI COLPEVOLI

Hai 55 anni e decidi che vuoi un tatuaggio, ci pensi da anni ma la paura del dolore fisico e l’idea che sia una cosa che ti resterà sulla pelle per sempre, ti ha frenato. Arriva il momento e su due piedi, decidi che sarà un geco, un piccolo geco una decina di cm sopra il malleolo sinistro. Dolore 0, gratitudine alla tatuatrice (la mia amica Rosalba, santa Rosalba) e innamoramento immediato per Arturo (sì il mio geco ha un nome). Ormai da un anno è praticamente il mio animale domestico, quindi immaginatevi un po’ come ci sono rimasta quando ho scoperto, leggendo La banda dei colpevoli, che uno dei protagonisti è un geco psicopatico, no, non appena un po’ balengo, psicopatico proprio. Passato l’attimo in cui ho guardato Arturo con un minimo di turbamento, stando ben attenta a non farmi vedere mentre ridevo come una pazza,  mi sono lasciata prendere dall’atmosfera che la Savioli riesce a creare. Reale realissima, con quelli che sono i problemi quotidiani di una donna che lavora e il cui marito per di più, ha avuto un avanzamento di carriera che lo ha portato e lo porterà più volte ad essere lontano, parecchio lontano e con non pochi problemi di adattamento, per qualche giorno; Luca, il figlio cinquenne, lamenta dei malesseri sospetti che costringono la nostra Anna a correre più di una volta a scuola per recuperarlo, salvo scrutandolo dallo specchietto, vederli scomparire praticamente all’istante e naturalmente pensare che è colpa sua, per fortuna il gatto in quella casa ha uno spirito che Montessori levati proprio. Più vera del vero insomma, eppure nello stesso tempo, complici forse i dialoghi con un ficus adolescente e un’erbaccia in proporzione vecchia e saggia, tartarughe artritiche la psicanalista sostituita – egregiamente – da una rana toro, più altri innumerevoli interlocutori, quella stessa atmosfera reale realissima di cui parlavo prima, diventa anche un po’ fiabesca. Ok ok, molto fiabesca, perché ci sono anche le luci di Natale e la sostituta nonna che prepara biscotti e torte e Lavinia, sorella svampita che ha comprato casa proprio sopra l’appartamento in cui è avvenuto l’omicidio su cui Cantoni e soci, dovranno indagare.                                                                                                              Dice sì ma così sono capaci tutti, a parte il fatto che non è vero, perché dar pensieri e voce a delle creature così disparate e dare l’impressione che se potessimo sentirli anche noi, sentiremmo esattamente quei discorsi, è una sfida che perderebbero in tanti e se questo non bastasse, va detto che la presenza di queste distrazioni, non toglie un grammo né alla trama gialla che è ineccepibile, né alla fatica della vita. Una fatica come quella di tutti ma alleggerita dalla convinzione che un sorriso, magari non entusiasta ma sincero, che un pochino di buona educazione, il medesimo rispetto per chiunque stia interagendo con noi e non ultimo il primo principio dettato da Esculapio: non nuocere, siano il viatico per arrivare alla serenità. Forse anche Sarah ha una rana toro estremamente preparata perché Annarella, romanzo dopo romanzo, sta diventando grande, ha imparato tante cose su di sé e sugli altri e guardandoli con occhi diversi, più distaccati dall’idea che ha di loro, scopre che o sono cresciuti anche loro o lei si era sbagliata e in questo modo, affronta tutto con una serenità che è propria di chi è risolto o ha capito la strada giusta da percorrere.                                                                                Ragazzi fidatevi, La banda dei colpevoli non può mancare nei reader o nelle librerie, e se non incontrate Jasoneh, il coniglio da sgabuzzino e gli algidi occhi d’oro di cui si innamora Otto (che per chi non lo sapesse è un enorme alano arlecchino), beh, non sapete cosa vi perdete.

DELITTO SUL LAGO

Avete già incontrato il vicequestore Spina? È apparso lo scorso anno sugli scaffali delle librerie e io mi sono innamorata di lui e della sua suqdra sbarellata, no, sbarellata forse non è il termine esatto, allegramente variegata ecco. Lui, il vicequestore Spina, soffre di quella strana patologia che non gli fa sentire niente, non sa cosa sia il dolore il caldo il freddo l’urgenza di trovare un bagno e il conseguente sollievo, non conosce fame e sete nè la puzza o il profumo. Detta così sembra quasi una cosa bella ma a parte il rischio di rompersi o tagliarsi accidentalmente e morire senza sapere perché, che la tua vita sia regolata da un apparrecchietto che ti dice quando è ora di mangiare o se devi bere, se devi andare a svuotare la vescica o se ti devi mettere una maglia e se hai delle eiaculazioni senza sapere cosa sia il pacere, proprio bello non è. È anche stato lasciato dalla donna che ama e non sa il perché. Diciamolo, non è che la vita di Spina sia proprio un carnevale di Rio, lui però è un tranquillone, abituato giocoforza alla sua vita, affronta il lavoro con calma, subendo com’è ovvio le solite pressioni dai superiori e contando sulla squadra. Potreste chiedervi a questo punto perché mi piaccia così tanto, e io vi rispondo che Sardelli mi porta in una Roma che non è patinata ma non è neanche quella delle borgate “degradate”, che la descrive ma senza enfatizzarla, con la misura di uno che sa di quel che parla, che così come per la città, fa per i personaggi. Nessuna esasperazione di quelli che sono gli inevitabili tratti caratteristici di ognuno senza esagerarli, cosicché nessuno diventa neanche lontanamente né una macchietta né un eroe. Le trame sono sufficientemente intricate perché chi ama il giallo sia soddisfatto ma non richiedono geniali intuizioni (e relativi geni), solo lavoro. Pochi colpi di scena calibrati perfettamente, quel tantinello di sentimenti che non guasta e qualche risata o sorriso. Insomma un mix perfetto per godersi una bella storia, condita con un gusto delicato ma deciso e scritta decisamente bene. Non mi pare poco eh. Ah, se vi piacesse come suppongo, da leggere c’è anche il primo, Il venditore di rose.

SONO MANCATO ALL’AFFETTO DEI MIEI CARI

Il meteo è un indicatore infallibile della localizzazione in pianura Padana, gli anni sono quelli fra i ’60 e gli ’80, quelli in cui chi ne aveva voglia un lavoro lo trovava, le donne erano a cavallo fra la sottomissione e la “conquista” di qualche diritto in più sulla loro vita e chi con testardaggine costruiva la sua impresa (che fosse la fabbrichètta o un attività commerciale),  la faceva in prospettiva, i figli l’avrebbero portata avanti.

Niente Lago e pittoreschi personaggi (ma non è una novità, il medico di Bellano ha già dato ottima prova di sé con lo splendido Documenti prego e i molto belli Il metodo del dottor Fonseca e Vivida mon amour) eppure nonostante la mancanza di uno scenario che fa storia di suo, ci racconta affascinando la vita di questo ferramenta (col negozio più bello grande e fornito dei dintorni) che vive per vederla portata avanti dal frutto dei suoi lombi. Frutti che ahilui, non sono esattamente della stessa idea, fomentati anche dalla madre che a dispetto della praticità del marito, li spinge a seguire le loro inclinazioni (per balorde che siano).

Il talento di Vitali si vede anche nella scrittura che è completamente diversa eppure riconoscibilissima anche in questi romanzi fuori zona comfort. Quasi un monologo che racconta in prima persona anni di rivalsa sulla povertà del dopoguerra, quella voglia di godere il più possibile del benessere faticosamente acquisito senza accorgersi che non ci si sta godendo niente e la fatica di affrontare un futuro che potrebbe non esserci.

Un romanzo senza genere se non quello di essere bello, di regalare qualche ora di svago intelligente con anche il pregio, per chi lo vuole, di dare spunti di riflessione interessanti. Il modo in cui ogni membo della famiglia affronta gli accadimenti e i fatti della vita, altro non è che un’approfondita carrellata sulla varia umanità, di cui Vitali, attento e arguto osservatore coglie e mette in luce le sfumature e le “conseguenze” di ogni strada. Da mettere in valigia o sulla pila dei libri da leggere.

SCIROCCO

IL VENTO DELLE EMOZIONI

Ad un anno dalla sua comparsa nelle fumetterie e librerie, Scirocco di Giulio Macaione (Bao Publishing), festeggia il primo compleanno con la vittoria del torneo Letterario di Robinson delle Graphic Novel in cui vengono chiamati a votare e recensire lettori forti e circoli di lettori di tutta Italia.

Un ottimo riconoscimento per quello che definirei un graphic novel o fumetto che dir si voglia, generazionale perché racconta di una famiglia, composta da Mia, un’adolescente che lotta per poter vivere la sua più grande passione, la danza; Gianni, il padre di Mia, che per troppo tempo non ha amato e ora di fronte ad una possibile nuova relazione ha paura; e infine Elsa, la nonna, che si trova di fronte ad una scelta importante sul come affrontare una malattia. È proprio Elsa il personaggio cardine in questa storia, che dà il via a tutte le vicende raccontate e conseguentemente porta a galla le emozioni e gli stati d’animo dei protagonisti.

Le scelte grafiche sono decisamente interessanti ed estremamente accurate, a partire dal disegno tipicamente europeo che è chiaro e realistico a cui l’autore ha unito due bicromie che caratterizzano le diverse ambientazioni, siciliana e veneziana usandole anche per sottolineare le emozioni dei protagonisti. L’azzurro che delinea la prima parte, quella veneziana, una sorta di graduale inizio in cui conosciamo i protagonisti ma anche sinonimo della malinconia di Elsa, sfocia in un tenue lilla per l’epilogo di tutte le vicende, con il passaggio al più acceso e caldo giallo per la Sicilia, un colore più deciso ed evocativo della terra d’origine, che ricorda il sole, il paesello natio, il primo amore e la gioia di vivere.

Una storia di passioni, amore, dolore ma anche di speranza, determinazione e coraggio. Non entro troppo in dettaglio nella trama per evitare spoiler perché rischierei di non rendere il giusto merito alle vicende, che se al primo impatto possono dare l’impressione di cose già viste, grazie alle scelte grafiche di cui parlavo prima, prendono una strada diversa, diventando uniche e speciali. Diventando un inno alla libertà di scegliere, un inno alla vita.