UN PAIO DI TITOLI DI CUI NON PRIVARSI

Carlo Lucarelli non è certamente il primo a rendere protagonista un figlio – nello specifico figlia – di un romanzo, certo che mettere su carta e nella testa di chi legge, così tante emozioni diverse, richiede un certo talento (ma su quello c’erano pochi dubbi) e almeno altre due cose. Non è detto che sia o/o, possono tranquillamente convivere, questo romanzo ne è la prova.                                                                                             Un’enorme sensibilità, che gli permette di raccontare come lo stesso fatto, la stessa tragedia, sia vissuta elaborata e affrontata in modi così diversi da sembrare fatti diversi e uno studio approfondito sulle dinamiche che si innescano in chi viene privato di una parte di sé.                           Cosa diventa il dolore? Dove ti può portare il dolore senza nome – in realtà ho scoperto che una definizione esiste –  Quali abissi può arrivare a toccare un essere umano? Ma più di tutto, la domanda che ti resta dentro e continua a macinare quando meno te lo aspetti è: quante volte vediamo ciò che vogliamo vedere e non la realtà delle cose? Cosa siamo disposti a sacrificare per non vedere la realtà? Almeno tu è un romanzo sconvolgente ma imprescindibile nei tempi in cui viviamo.

Magari imprescindibile non è la parola esatta per questo romanzo di Alessandro Robecchi, però ecco, Il tallone da killer è uno di quei romanzi salvavita che sarebbe bene avere a portata di mano. Avete presente quando vi viene il blocco del lettore? Oppure quando aprite centordici libri e dopo le prime 10 pagine li richiudete sbuffando? Ecco, a quel punto prendete in mano il libriccino blu e si compie la magia. La penna (vabbè la tastiera l’è istess) di Robecchi, si trasforma in una bacchetta magica e la sua mente (deliziosamente perversa), partorisce incantesimi. I due protagonisti li abbiamo già incontrati, se non ricordo male – si fa per dire, lo ricordo benissimo – sono i padri della della famosa frase Hic sunt capannones, definizione perfetta della ubertosa Brianza. Non hanno un nome, ne hanno tantissimi, monouso naturalmente. Robecchi è un autore raffinato, capace di farti sballicare dal ridere usando ironia e paradossi eppure andando a toccare temi che riflettono perfettamente uno dei peggiori quesiti che oggi rappresentano quasi la normalità. Quanto vale la vita di qualcuno? O ancora più precisamente, ha un valore oltre a quello economico? Secondo me, scoprirlo ridendo, non ha prezzo.

A TORINO – AL SALONE – ALL’ANNO PROSSIMO

Torno dal Salone, con gli occhi pieni, le cose belle superano ampiamente le cose brutte, quindi va ancora bene così.

Sento che vorrebbero ampliare, ora, io capisco che quando si fa qualcosa e lo si vede crescere, la spinta a proseguire è forte, ma già così, riesci a fare vedere sentire, fare, un quarto delle cose che ti eri prefissato, figurati se le aumentano.                                                                                                                       Perché siamo onesti, non ce la si fa. Gli autori che hai voglia di ascoltare sono tanti, poi ci sono quelli che becchi per caso, mentre fanno gli interventini volanti e tu stai passando e ti fermi ad ascoltare, semplicemente perché devi.                                                                                                       Gli amici, i noti che conosci, i noti che non conosci ma tanto hai la faccia come il culo, sicché, insomma, al Salone scopri la verità sui sei gradi di separazione.

Questo per me sarà il Salone delle mutande, del volo planare sul gradino della camera, del cingalese che porello… Dei camerieri deliziosi che ti portano a tavola piatti deliziosi, della signora Anna, della caccia al nome del paesino emiliano (provincia di Modena), in cui è nato poro nonno (dello scrittore), un ripasso di geografia che non ve lo dico. Trattavasi di San Felice sul Panaro, lo lascio qui a futura memoria.

Ma anche delle risate, quelle belle, che ti fanno venire il mal di pancia e non smetteresti mai, delle panchine messe l’ultimo giorno (mannaggia a loro), della metropolitana presa in direzione opposta per fregare le milionordici persone che aspettano al Lingotto e della Gerini, che mannaggia a lei, è filtrata sì, di brutto, ma da madre natura! Bella ma bella che, bella. Ma anche della Saponangelo, che è talmente Sara che…Vabbè lo scoprirete.

Insomma un altro anno sulle spalle, un’altra infornata, no scusate, un coacervo, di cose preziose, di persone preziose e di libri in valigia che aspettano di essere letti e poi raccontati a chi li leggerà.

La parola chiave del Lingottto, rimane solo una: grazie, a chi ha diviso e condiviso, grazie, ma ci sarà una parola più bella? Non credo.                                                                                                                                                  

Poi magari su Fb vi racconterò qualcuno degli episodi, vi dico solo che ieri, da sola, alla fermata del tram, ho letto una parola, una sola e ho cominciato a ridere che sembravo pazza. Quindi grazie. È davvero l’unica parola che vagamente, rende l’idea.

UN PO’ DI VELENO E L’ANTIDOTO

Oggi un antidoto e un po’ di veleno, l’antidoto è splendido romanzo, L’attesa di Connelly. Sappiamo quanto è difficile mantenere un livello alto quando si scrivono romanzi seriali, ci sono esempi chiarissimi  di personaggi seriali che dopo anni non riescono più ad avere l’appeal, qualcuno si arrotola su se stesso arrivando ad essere quasi una caricatura. Penso alla Scarpetta, giusto per essere chiari, le cui “avventure” diventano con poche variazioni sempre la stessa, senza contare un particolare che definire irritante è poco, soprattutto perché spesso reiterato nel tempo: se per ribadre che sei di origine italiana, mi dici che hai scongelato un meraviglioso sugo alla marinara (credo a base di aglio e forse un calamaro), fatto con le tue mani sante, metti sulla pasta un mezzo kg di parmigiano, lo accompagni col pane all’aglio e lo innaffi con un corposo chianti, capisci bene che sei se non altro passibile di denuncia per oltraggio alla Costituzione. A parte lei comunque, credo che ogni lettore ne troverà almeno altri tre o quattro. Poi ci sono quegli autori graziati da Dio che li ha muniti di un talento che non gli fa sbagliare un colpo. Uno di questi è Connelly. In tanti, tantissimi, abbiamo amato Harry Bosch da subito, era il 1992 ed esordiva ne La memoria del topo, un personaggio fuori dalle righe, un ribelle non sempre capace di stare nei ranghi, sempre sul filo ma sempre in grado di aggiustare il tiro. Abbiamo palpitato per le sue vicende personali, fatto il tifo perché riuscisse a costruire un rapporto con Maddie – la figlia avuta dalla ex moglie – trepidato per i tanti cambiamenti di dipartimento e infine tremato quando è sato colpito dalla leucemia. In ogni romanzo, Connelly, è stato capace di calibrare la presenza e le assenze, il grado di protagonismo, ceduto al fratellastro o ai vari partner. In questo ultimo romanzo, L’attesa, la presenza del detective è ridotta all’osso o poco più, ma come nelle migliori bistecche, la carne intorno all’osso è la più saporita. Protagonista, anzi, protagoniste, sono Renée Ballard, e Maddie (che per inciso è entrata in polizia). Storia perfettamente equilibrata, più casi che si intrecciano e la presenza di Bosch, ormai in pensione, diventa il fulcro senza togliere una briciola. Un uomo ormai fragile ma che non molla di un centimetro quando si tratta di fare giustizia e di proteggere le persone che ama e/o con cui lavora.

UN GROSSO SI E UN “ANCHE NO”

In attesa tornare in forma, (ma quanto è lunga la forma influenzale quest’anno) vado a raccontarvi un po’ di quello che ho letto e cosa ne penso.

Ordunque, c’è ovviamente Donato Carrisi, con La casa dei silenzi, sempre più estremo se così vogliamo dire, epperò, siccome lo conosco da tanto tempo, so che prima di mettere qualcosa nelle pagine di un libro, si documenta fino all’ultima lettera, pe quanto folle possa sembrare quello che racconta, tocca crederci. Non che faccia testo, ma a me è piaciuto molto, più dei precedenti. Ancora Pietro Gerber e il suo rapporto con i bambini che cerca di aiutare, i metodi a volte possono sembrare estremi, in realtà di estremo ed eccezionale, c’è solo la sua bravura nel creare l’atmosfera in cui accadono le cose. Cupe, capaci di metterci in una condizione di tensione a priori, ovviamente questo fa sì che anche la cosa più banale risulti ammantata da un sintomatico mistero. Last but not least, il tema di fondo, l’abuso, più che mai attuale, più di sempre trattato con delicatezza ma di una forza prepotente. Se lo amate, non lasciatelo sullo scaffale dei non letti a lungo, concedetevi qualche ora e immergetevi in quella splendida follia che riesce sempre a creare.

C’è un romanzo che invece potete tranquillamente lasciar attendere, eh sì, lei, la superanatomoatologa, zia di un genio e sposata con il top dei servizi segreti nonché partner del buzzurrissimo Pete Marino – che per inciso è anche suo cognato – Non ce la fa. Io ogni tanto ripenso al primo anatomopatologo della fiction, ve lo ricordate il dottor Quincy? Buona che avesse un microscopio, ma quanto lo abbiamo amato. Ora, per carità, la scienza va avanti il progresso e la grandeur americana, ma dio santo. Ci sono le auto, ma no, l’ineffabile Lucy si sposta solo in elicottero – e che elicotteri – indossa gli occhiali smart h24 (perché lei non dorme) e mentre parla con la zia, pilota in mezzo alle tempeste, riceve messaggi inoltra mail controlla le videocamere di sicurezza di almeno 4 posti e magari si fa uno snack. Ok la supereroina ci sta – oddio – ce la facciamo stare, ma l’acerrima nemica che sembra più che altro un’ araba fenice… La arrestano e quella evade (scomparendo), ha sul gobbo qualcosa come una decina di omicidi – noti – ma non è ancora andata a processo definitivamente, probabilmente perché con la pena di morte finirebbe il gioco. Riesce regolarmente a penetrare le barriere di casa Benton Scarpetta, datele le chiavi santo cielo, che facciamo prima. Dulcis in fundo, tralasciando il fatto chesull’omicidio aleggiano gli UFO, questa cosa che la bella Kay deve rimarcare le sue origini italiane, perdonatemi ma du palle. Pasta alla marinara (sugo preparato da lei e congelato, che quando trovi il tempo rimane un mistero glorioso), serviti con abbondante parmigiano e accompagnati da pane all’aglio (ma da quando è una specialità italiana?) e udite udite, un corposo chianti. Mi pare abbastanza no? Patricia Cornwell insomma, la sua Kay Scarpetta e le Cause innaturali, possono tranquillamente attendere che non abbiate niente ma niente di meglio da fare.

ROCCO S. VICEQUESTORE – AOSTA

È cambiato Rocco, ma tanto. Lo avevamo già intuito, a memoria direi con 7/7/2007, che stava succedendo qualcosa dentro di lui, poi le vicissitudini che hanno stravolto i suoi punti fermi, le storie d’amore che non vuole far decollare, D’Intino che quasi lo ammazza. Però, io avevo una certezza, che la scorza fosse abbastanza spessa da continuare a “proteggerlo”.

Smentita clamorosamente da questo romanzo tanto atteso. Il migliore, il più bello, l’ho sentito dire da molti e non escludo di averlo pensato anch’io appena finito, ma lo abbiamo detto anche di parecchi dei precedenti.

Forse è il più triste, quello sì. Il lavoro resta un’ancora di salvezza, tant’è che si gira mezza Italia senza battere ciglio e a spese sue, per arrivare a una risposta su quell’uomo che hanno investito mentre andava in bicicletta. A buona ragione? Teoricamente sì, il caso lo risolve, ma quasi emblematicamente, resta qualcosa di sospeso.

Quasi una metafora della sua vita.

Sospeso è rimasto il suo rapporto con Marina, che ormai vede sempre più raramente e non considera più qualcosa al di fuori di sé, così come quello che è successo con Sebastiano, nessuna vendetta nessun perdono, ma sappiamo che la cancellazione totale è difficilmente realizzabile. Caterina si è sposata, capitolo chiuso certo, ma trasformare qualcosa nella tua vita ha cambiato tante facce, richiede tempi lunghissimi. Anche la storia con Sandra è sospesa, certo ufficialmente è finita ma lo conosciamo il nostro vicequestore no?

Senza dubbio alcuno, l’impianto giallo è perfetto, un caso generato da un cold case che non si sapeva nemmeno essere stato un case, ma credo che a far la punta al pennino sul giallo, siano rimasti in tre, anche se forse a Manzini frega poco che lo si apprezzi per il giallo i protagonisti o per l’insieme.

Altrettanto senza dubbi, tutti siamo affezionati alla storia, le storie e quelle non ce le fa mancare.

Non so quanto poi un autore ci pensi o gli venga spontaneo in base al suo background, ma certamente, sia il ritorno degli sposini dalla Rodhesia (mi spiace ma così l’ho conosciuta e così per me rimane), sia il matrimonio imminente di Fumagalli e la Gambino, sono amplificatori della solitudine di Rocco, come lo è la virata del maniaco degli evidenziatori, che scopriamo è anche poeta. Tutto sembra sottolineare l’idiosincrasia di Schiavone per la vita dopo Marina. Ma nonostante tutto, con Lupa sempre al suo fianco – che per inciso secondo me ha un ruolo importante nello “spogliamento” di Rocco – quello che arriva è un uomo triste, a volte francamente disperato, che però si lascia vivere con la speranza inespressa di essere ancora capace. Capace di essere un uomo oltre che un vicequestore, capace di ricominciare a vivere, di non lasciare che tutto accada.

Un uomo capace di vedere, quanto sia amato – questa è una speranza mia – da tutti quelli che nonostante lui, gli sono amici.

RIPARTONO I CONSIGLI

Lo so, sono orrendamente ferma da un sacco di tempo con i consigli le recensioni le ricettine e quant’altro, il fatto è che l’articolo sulla ricca Milano, ha fatto sì che chi di dovere si mettesse in moto e a onor del vero, ci sono tante persone da ringraziare. A giorni credo sarà finita la bonifica e lo farò pubblicamente. Nel frattempo vi lascio giù qualche consiglino di lettura. Ne ho in canna circa un quintale in canna, quindi nei prossimi giorni, tenterò di rimettermi in pari.

Partiamo da una riedizione, che poi non so nemmeno se sia corretto come termine, però, se prima di giovedì andate in edicola, insieme a Sorrisi e canzoni TV del 19 settembre, trovate L’ultima mano di burraco di Serena Venditto. Confesso che quando è uscito nel 2019, mi era sfuggito. A prescindere dal fatto che i 5 di via Atri, li adoro, sono una giocatrice incallita del suddetto gioco, ragion per cui mi sono fiondata nel romanzo. Non conoscete i 5? Ok, riassunto breve. In via Atri a Napoli – che è in centro – vivono 4 adulti, non studenti squattrinati che dividono l’appartamento, bensì: Malù, un’archeologa che per inciso è la proprietaria di casa, la sua amica traduttrice anglo italiana Ariel e il di lei fidanzato (ma con stanze separate) Samuel detto Magnum sardo nigeriano – per inciso gran figo -e Kobe un pianista giapponese, il quinto elemento è il gatto nero di Malù Mycroft e il nome dovrebbe già dirvi tutto. Per una serie di ragioni che scoprirete leggendo, sono spesso tutti coinvolti in indagini di polizia. Tutti nel senso che indaga anche il gatto? Se mai ne avete avuto uno, sapete che la risposta è: Eccome! Serena Venditto ha imparato a meraviglia (e di suo ha un bel talento), le regole della scuola napoletana del giallo – sento qualcuno dire ma che è? De Giovanni De Silva Perna , giusto qualche giorno fa de Crescenzo e chiedo scusa a chi sto involontariamente escludendo  –  mescolare il crime il noir, la vita insomma e la leggerezza calviniana con cui solo i napoletani sanno vivere, anche la morte, strappando a tempi determinati e perfetti, anche delle grosse risate. A dirla tutta, è anche molto più efficace di tanti concionamenti e prediche contro il razzismo, che male non fa.

Il secondo romanzo che vi segnalo, è già fuori a qualche mese ed è il secondo romanzo di Janice Hallett, l’autrice inglese che ha inventato un modo decisamente nuovo – se l’hanno fatto prima è stato a mia insaputa – di scrivere gialli. I libri si compongono non di dialoghi e descrizioni ma di mail messaggi WA sms (pochi), articoli di giornali e rapporti di polizia. L’esordio è stato con L’assassino è tra le righe che oltre ad avermi spiazzata per la forma, mi è anche piaciuto molto, questo forse un filino meno – ma se lo consiglio evidentemente il filino è proprio sottile – probabilmente perché la storia è un bel po’ più complessa – però, superato l’impatto iniziale (ho passato ore a chiedermi e cercare sul web)mi sono resa conto che non c’erano riferimenti a fatti realmente accaduti e a quel punto c’ero dentro con tutte le scarpe, ragione per cui Il misterioso caso degli angeli di Alperton, entra di diritto nella pagina dei consigli. Non vi riassumo la trama, ma tanto non lo faccio mai, un po’ per non guastarvi il piacere della lettura, un po’ perché scoprire quale sia il filo da seguire, secondo me è proprio parte del divertimento.

SULLA PIETRA

Sei anni dicesi sei che non scriveva, quando mi è arrivato il volume (in anteprima e per questo sia sempre reso grazie a Einaudi), l’ho divorato nonostante sia un bel malloppo. Ero preoccupata di essermi dimenticata qualche personaggio, qualcuno di quei tratti surreali della squadra e invece. Invece no, alla prima pagina sono tornata felicemente a Parigi, pronta a spalare nuvole a nutrire tutti a rannicchiarmi ovunque per un pisolino. Poche pagine e mi sono trovata in un paesino del nord a caccia di un assassino davvero particolare. Il paesino è Louviec, dove vive un (forse) discendente di Chateaubriand e per non farsi mancare nulla, c’è anche un fantasma. Si discosta un pochino dal solito, anche Fred Vargas ha ceduto al fascino del cibo, giustificata dal fatto che il commissario e in seguito i suoi uomini, alloggiano in una locanda, la migliore dei dintorni, che gestita da Johan, cuoco sopraffino e memoria storica del Paese, diventa il centro nevralgico dell’operazione. Una parte della squadra di Adamsberg, lo raggiunge a Louviec e voilà, nulla è cambiato. Il mantra dello spalatore che è poi la sua risposta standard a quasi tutte le domande, è sempre lo stesso, “non lo so”, ci trascina nelle sue elucubrazioni, strampalate ma precise come le pallottole di un cecchino e ci si trova a camminare su strade di acciottolato, a bere sidro ed elaborare le teorie più strambe, per arrivare, senza essersene resi conto, al centro del bersaglio. Non è un romanzo per tutti, la Vargas non è un’autrice per tutti, ma chi riesce a entrare nel mood, non smette di rimpiangerla ad ogni romanzo finito. Bisogna lasciarsi trasportare, arrampicarsi su un Dolmen lasciando vagare i pensieri, seguire Adamsberg e i suoi, non è una semplice lettura, è un fantastico viaggio da rimpiangere in attesa del prossimo. Ah, alle ultime pagine, più di qualche cuore si scioglierà con un sorriso.

IL BACIO DEL CALABRONE

Un PM  sempre un po’ annoiato che difficilmente perde la calma, che cerca di capire perché si innamora ogni due per tre, fingendo anche con se stesso di cercare un amore stabile con cui rimpiazzare l’ex moglie, orfano di padre, con un maggiordomo Camillo, che nonostante l’età di Manrico, continua salvo rari momenti di intimità familiare, a chiamarlo contino, ama visceralmente la madre, con cui vive, deliziosa vecchia signora ludopatica che ha dilapidato allegramente il patrimonio della famiglia, mantenendo uno spirito eccezionale e che lo stupisce anche per il rapporto privilegiato che ha con il nipote adolescente.

La sua passione, l’amore per sempre, è quello per la lirica che conosce come forse solo un direttore d’orchestra, e se da un lato per risolvere omicidi e malefatte varie, è indispensabile il contributo di tutta la sua eterogenea (e fantastica) squadra, Cianchetti in testa – l’esatto opposto di un nobile, borgatara doc – che con Spinori forma un perfetto TAO, dall’altro, il conte è convinto che la lirica contempli nelle opere, tutti i misfatti commettibili e di conseguenza, trovata l’opera in cui cercare le risposte, trova anche la quadra dei casi.

Mi piace perché non è perfetto, ha come tanti, un famigerato “passato”, ma lo ha metabolizzato e ci convive tranquillamente. Consapevole di come funziona la vita, onora la decaduta nobiltà con quella d’animo, è una persona buona onesta ma non fessa, collabora e non prevarica, non ha paura di ammettere gli errori né di porvi rimedio. E dopo tutta sta spatafiata? Cosa avrà fatto il calabrone del titolo, ma soprattutto chimai vorrebbe farsi baciare? Lo scoprirete se non conoscendo ancora il personaggio, vi ho incuriositi a sufficienza. Ah, è il quarto libro, il consiglio è di tenerlo in libreria finché non avete letto i primi tre.

LA BALLATA DEI PADRI INFEDELI

Che il Giambellino fosse un quartiere con una personalità ben definita e tutta sua, lo aveva già intuito Gaber negli anni ’60, tanto che ci ha “ambientato” la storia del Cerutti Gino e quella della sua mamma, adesso che siamo in un altro secolo e in un altro millennio, ci pensa Rosa Teruzzi a ricordarcelo e raccontarci cos’è oggi, attraverso le storie delle Cairati – tre donne il cui cognome ricordiamolo, è mutuato in omaggio alla sincera amicizia con la grande Sveva Casati Modignani –

Tre donne dicevo, tre generazioni discendenti, che a prima vista non potrebbero essere più diverse tra loro e che invece ci mostrano, romanzo dopo romanzo, che inesorabilmente qualcosa delle madri, prima o poi lo ritroviamo nelle figlie e viceversa. A volte più di qualcosa per dirla tutta.

Sapete che delle trame scrivo poco o niente perché tanto si trovano dovunque, vi racconto piuttosto quello che i personaggi, nelle storie che vivono e nel come le vivono, lasciano a me. Ho adorato Iole da subito, una settantenne che pur non rinunciando a essere la balenga che ben conosciamo, in questo romanzo molto più che in altri, fa trasparire il profondo amore che nutre per Libera. Già solo imponendole il nome, ha augurato alla figlia la cosa più importante del mondo. Lo dimostra a modo suo, senza mai smentire la sua natura di donna profondamente lontana dalle convenzioni, ma specialmente negli ultimi romanzi, lo palesa attraverso i consigli, spesso sibillini, che hanno l’unico scopo di accompagnare Libera a trovare quello che cerca, a capire quello che può farla felice.

Vittoria, la nipote, poliziotta come il padre defunto, da quando ha trovato l’amore, pur restando formalmente rigida e inquadrata, ci sorprende ancora con la sua capacità di passioni insospettabili che la rendono capace di avere quasi una “doppia vita” e poi c’è Libera appunto.

Forse perché sono una decisionista, una che si butta – caratterialmente sono più vicina a Iole – faccio fatica a capire, o forse la capisco fin troppo bene, l’indecisione su cosa fare della sua vita sentimentale, il suo concedersi momenti di gioia e poi perdersi in rimpianti e rimorsi. Compensa “l’incapacità” di buttarsi egoisticamente e definitivamente, magari infischiandosene un po’ dei sentimenti degli altri, lasciandosi trascinare nelle indagini, nonostante le promesse fatte a Gabriele (il collega del marito defunto con cui ha una relazione), se ritiene che la “causa” sia giusta, e fin dalla prima volta, lo sono eccome per i temi che affrontano. Perché Teruzzi, con ogni avventura che fa vivere alle miss Marple del Giambellino, affronta un tema sociale importante.

Discorso a parte meriterebbero i coprotagonisti, Gabriele appunto, Furio la Smilza e Cagnaccio, che a loro volta stanno evolvendo mostrandoci sempre più di sé.

Questa però non è una pagina di psicologia, quindi tornando a bomba sulla Ballata dei padri infedeli, su una scala da uno a cinque, prenderebbe un 4, non perché manchi qualcosa ma perché ho avuto la sensazione di un romanzo di “transito” e quindi “incompiuto per quanto riguarda i personaggi.

Il plot giallo invece, conferma il talento indiscutibile di Rosa Teruzzi. In conclusione, ve lo consiglio senza tema di ritorsioni.

LA DONNA CHE FUGGE

Che Alicia Gimenez Bartlett sia una maestra indiscussa è cosa che non si può mettere in dubbio, così come è acclarato che Pedra Delicado sia un personaggio amatissimo, una donna che racchiude in sé un universo fatto da ogni tipologia di donna.  Mancava dagli scaffali delle librerie  – con un’indagine –  ormai da qualche anno ed è tornata se non col botto, quasi.

Le trame dei  suoi romanzi sono gialli che definirei abbastanza “classici”, in cui l’ispettrice supportata da Firmin Garzòn, indaga alternando il buon vecchio metodo consuma scarpe, a frequenti soste alla Jarra de oro, birrette rinfrescanti e consumo di cibo, che diventano carburante e momenti di necessaria rigenerazione per la mente. Questa indagine, parte dall’omicidio del proprietario di un food truck, delitto che a rigor di logica, essendo avvenuto nel piazzale dove sono riuniti diversi furgoni, dovrebbe essere facilmente risolvibile, ma sappiamo che la logica deve sempre fare i conti con la realtà ed evidentemente quest’ultima ha deciso diversamente.

Vero che l’omicidio è avvenuto in piena notte e che l’arma è un coltello – quindi silenziosa – ma pare proprio che trovare un testimone sia impossibile, lavorare tanto durante il giorno evidentemente favorisce sonni profondi e toglie il tempo per vedere qualsiasi cosa non siano i clienti. Per di più il defunto pare essere un tranquillo lavoratore che nessuno al mondo poteva odiare al punto di ucciderlo. A questo punto però la domanda che sorge spontanea nel futuro lettore è: “ma allora chi è la donna che fugge?” “Da cosa fugge?” Su questo interrogativo e sulle molteplici risposte che si svelano nel corso dell’indagine – che fra l’altro porta i nostri due investigatori in giro per tutta la Catalogna – si gioca tutto il romanzo.

Non so se la mia memoria cominci vacillare, ma la mia impressione è che il rapporto fra ispettrice e viceispettore abbia fatto un passo avanti, c’è più confidenza fra i due, le conversazioni che non riguardano il lavoro, vanno leggermente oltre le chiacchiere, in qualche modo sembra che Petra cerchi quel confronto con la controparte maschile, che non riesce ad avere col marito, coniuge che nei rari momenti in cui riescono a incrociarsi, insiste sull’idea di acquistare una casa in campagna dove trasferirsi per smettere con lo stress della città. L’ispettrice è pur sempre una donna e questa insistenza le insinua dubbi su dubbi, aggravati dalla consapevolezza di essere particolarmente assente.

A livello di indagine, ben costruito anche se forse non uno dei migliori, ma a livello narrativo, direi, anzi dico, che è assolutamente imperdibile.