LA VITA PAGA IL SABATO

Difficile parlare dei romanzi di Davide Longo, perlomeno di quelli che vedono protagonisti Bramard, che ha lasciato la polizia e Vincenzo Arcadipane, suo allievo che riesce ancora  a “coinvolgerlo”nelle indagini. Quando lessi il secondo, mea culpa sono sempre in ritardo sulla tabella di marcia, rimasi perplessa, non riuscivo a capire cosa ci fosse di strano. Con la lettura di questo quarto capitolo, mi si è illuminata la famosa lampadina. Non c’è il bellone cupo e affascinante che nasconde un oscuro passato, non c’è il genio sottovalutato che risolve il caso inconsapevolmente, non c’è la fragile fanciulla che bisogna salvare non ci sono storie d’amore impossibili, stranelle sì, ma con un loro certo equilibrio. Quello che c’è invece è una squadra di persone normali, con delle vite un po’ ciancicate ( nel caso di Corso molto ciancicata e in altri consapevolmente incasinata) per le quali non danno la colpa al mondo, ognuno di loro ha preso atto dei propri errori, delle proprie sfighe e degli errori altrui senza farne drammi o colpe da espiare per tutta la vita e ognuno fa il suo. Baricco li ha definiti la risposta piemontese a Montalbano, a me francamente non sembra, sono più una netta rappresentazione del territorio in cui sono nati. Solidi come le montagne che circondano Torino, riservati pragmatici, all’apparenza un po’ travet se vogliamo, ma con dei notevoli guizzi che il travet (inteso come immagine retorica ovviamente, massimo rispetto per la categoria a cui peraltro appartengo) non avrà mai nella vita. Al di là dei personaggi e dei comprimari comunque, va sottolineata l’originalità delle trame che spazia davvero a 360° sulle tematiche sociali che inevitabilmente stanno dietro i crimini, ma soprattutto la scrittura. Apparentemente semplice è in realtà (sempre secondo me ovviamente) frutto di una accurata ricerca tesa a sembrare così. Trasuda anche l’amore discreto per la sua regione, le caratteristiche territoriali e caratteriali dei piemontesi che a onor del vero, sbugiardano il vecchio e scorretto detto che vuole il piemontese falso e cortese. Se non li avete letti rimediate, partendo dal primo possibilmente per gustarvi ogni particolare, compresa la sottile irriverente ironia che Longo lascia cadere nei punti giusti.

PRATO ALL’INGLESE

Frédéric Dard è noto ai più per la famosa serie del commissario Sanantonio – 184 volumi – con cui raggiunse il successo ma dagli anni ’40, scrisse più di 300 romanzi tra serie e fuoriserie, alcuni dei veri e propri gioielli noir, che Rizzoli sta proponendo nella collana NeroRizzoli. In Prato all’inglese Jean-Marie Valaise, un rappresentante di calcolatori in vacanza a Juan les Pins si imbatte a causa di uno strano
equivoco in Marjorie Faulks, una donna inglese all’apparenza piuttosto triste. Pure lei è in vacanza da sola e complici il senso di libertà, i bicchieri di champagne e l’inevitabile fascino della Costa Azzurra in cui tutto sembra poter accadere, si invaghiscono l’una dell’altra. Tutto in una notte, perché Marjorie deve ripartire il giorno dopo; si lasciano con la promessa di scriversi. Un paio di giorni e Jean-Marie riceve in albergo una lettera appassionata con cui Marjorie lo invita a raggiungerla senza indugi a Edimburgo, cosa che lui decide di fare partendo immediatamente, spinto anche dalla sua ex, forse, Nicole che lo ha inaspettatamente raggiunto. Arrivato fortunosamente, a causa di uno sciopero non previsto, nella capitale scozzese, la donna che sognava lo stesse aspettando, sembra non essere mai esistita, non si presenta all’appuntamento e sembra non essere in nessun albergo bed & breakfast o casa privata. Valaise non capisce o non vuole credere a quello che sta vivendo e si ritrova in situazioni via via più allucinanti, fino ad entrare in un incubo e scoprire di essere parte di un piano a dir poco machiavellico. Anche in questo romanzo, come i precedenti pubblicati da Rizzoli (Il montacarichiI bastardi vanno all’infernoGli scellerati) l’autore basa
la storia su uno schema ben preciso e principalmente su due personaggi ottimamente caratterizzati, creando un intreccio surreale e folle ma che
alla fine ha una logica più che reale.
Un noir molto scorrevole, arricchito dalle ottime descrizioni paesaggistiche che trasportano il lettore, ci si ritrova a passare dal sole e la spensieratezza quasi irreale della Costa Azzurra al freddo e piovoso clima scozzese, girovagando insieme al protagonista dal centro alla periferia di Edimburgo, in un gioco sempre più folle.
Lo consiglio sicuramente ai lettori di Georges Simenon e di Artur Conan Doyle da cui l’autore sembra aver trovato ispirazione per la realizzazione dei
contesti e per la caratterizzazione dei personaggi investigativi.

“Dal pudore che aveva, si intuiva la profondità del suo dolore. La vera disperazione non ha il coraggio di esprimersi. Chi si confida dimostra di avere ancora qualche riserva di energia. Mentre Marjorie era arrivata al capolinea. Ero entrato nella sua esistenza….”


ANATOMIA DI UNO SCANDALO

Uscito nel 2018 ‘Anatomia di uno scandalo’ di Sarah Vaughan torna nelle librerie con una nuova copertina in omaggio all’omonima serie tv tratta dal romanzo con protagonisti Sienna Miller, Rupert Friend, Naomi Scott e Michelle Dockery. Serie tv che tutto sommato è piuttosto fedele al romanzo, a parte qualche piccolo stravolgimento sicuramente operato per dare più suspense alla storia.

Ci troviamo a Londra. James Whitehouse, uomo di potere, attraente, di buona famiglia, sposato con figli viene accusato di violenza sessuale da una sua assistente, Olivia Lytton. La moglie Sophie è convinta della sua innocenza e decide di stargli accanto anche se, pian piano inizia a vacillare, complice l’abile lavoro di Kate Woodcroft, avvocato dell’accusa. Ma c’è un passato in grado di spiegare molte cose e quindi, tramite dei flashback, le vicende si spostano ad Oxford, ai tempi dell’università dove James e Sophie si sono conosciuti, alle vicende che li hanno visti coinvolti, ai segreti da custodire, alle persone conosciute e dimenticate.

Ho letto prima il libro e poi curiosa di vedere come alcune vicende e soprattutto alcune emozioni fossero state trasportate sul piccolo schermo, ho deciso di vedere la miniserie prodotta da Netflix.

Perché l’argomento è veramente scottante.

E porta a riflessioni anche molto profonde. Lo stupro. Quando può essere veramente definito tale? La fiducia. Fino a dove arriva la fiducia nel partner, ancora di più se accusato di un terribile crimine? Il tradimento. Per quale motivo siamo disposti o meno ad accettarlo?

Queste sono solo alcune delle domande che mi facevo mentre leggevo il libro perché in realtà si viene attirati nella psicologia dei personaggi come non troppo spesso accade e le domande si sommano una su l’altra. E da non sottovalutare inoltre quella che è una vera e propria denuncia dei privilegi di chi ha potere, del comportamento della società e delle istituzioni di fronte a certe eventi.

IL SERPENTE MAIUSCOLO

“Non sono così addentro ai meccanismi editoriali da sapere come funzionano gli acquisti delle Case Editrici per quanto riguarda gli autori stranieri”.  Mi autocito non perché sia stata colta da un attacco fulminante di megalomania (quella ce l’ho sempre) ma perché il virgolettato, che avevo scritto parlando dei romanzi di Louise Penny, si adatta perfettamente anche a questo Serpente maiuscolo. In realtà non so se la scelta sia stata delle CE o dell’autore, fatto sta che Pierre Lemaitre, indiscusso a mio parere genio del noir, giocoliere provetto che usa le parole con rara maestria, crudele grottesco ironico e lucidamente perfido,ci dice che questo è il suo addio al genere. Niente più noir dunque ma ha deciso di celebrare questo addio con il primo noir che ha scritto nell’ormai lontanissimo 1985 o giù di lì. Ha scelto di pubblicarlo senza ammodernarlo, senza praticamente toccarlo. E porca la miseria è strepitoso. La sinossi l’avete letta più o meno dappertutto, io preferisco prlare delle vittime. Chi sarà vittima di Mathilde o di se stesso per ovvie ragioni non lo scrivo, potrebbe essere lei stessa o Henri, suo antico amante e mai sopito amore dai tempi in cui combattevano insieme nella resistenza o il vicino di casa o ancora il poliziotto che ha nella testa i serpenti. Eppure per quanto ormai vecchia (eh già, negli anni ’80 e ’90 i settanta non erano i nuovi cinquanta), decisamente sovrappeso e altrettanto decisamente avviata a un declino mentale, ha ancora abbastanza lucidità da far sì che gli altri non se ne accorgano, o quantomeno restino col dubbio. Soprattutto Henri che da sempre è rimasto oltre all’uomo che ama, e chi se ne frega del fatto che ha avuto un marito e una figlia, il suo comandante. Quello che la conosce meglio di tutti, che sa quanto può essere pericolosa. Ma cos’è a renderla così micidiale? Vi dico la mia, che vale quella di chiunque ovviamente, non è una persona cattiva, è amorale, attenzione non immorale, lei proprio non sa cosa sia il male. Mica ammazza la gente perché ha dei conti in sospeso, beh insomma, diciamo non ammazzava, ma perché è quello che sa fare, per cui la pagano, anche parecchio, e sa di essere la migliore. Il serpente maiuscolo appunto.   Per strano che possa sembrare, è anche una storia d’amore, magari non proprio quello delle favole d’accordo, ma state sulla fiducia, perché alla fine per quanto spiazzante disturbante e crudele, è sempre lui che fa girare il mondo, anche quando lo fa alla rovescia. Lasciatevi avvolgere dalle spire del serpente, vi ammazzerà lasciandovi vivi e se vi pare poco, ne riparliamo dopo che lo avrete finito.

OMICIDIO PER PRINCIPIANTI

Presente il famoso omen nomen? Io non ci sono mai stata ma da come lo descrive Frascella, Barriera di Milano, quartiere periferico di Torino, sembra essere  davvero un posto che chiude, che fa da barriera appunto. A cosa? Al benessere, alla crescita a tutte quelle cose che contraddistinguono le zone “bene”. Un po’ come succede a tanti quartieri di periferia. Meta degli immigrati dal sud quando c’era il lavoro e poi punto di arrivo di tutta l’altra immigrazione più contemporanea, perché i prezzi sono popolari, perché a un colore di pelle o a una lingua in più non ci fa caso nessuno. A me fa venire in mente il milanese Quarto Oggiaro, una volta famigerato e oggi quasi un posto a se stante, dove resistono un paio di sacche (vie) in cui la criminalità la fa da padrone, ma per il resto un piccolo angolo che pur facendo parte della città ne rimane fuori. Un posto dove resistono i piccoli negozi dove tutti sanno tutto e ognuno si fa i fatti suoi. È lì che è nato e cresciuto Contrera, ex poliziotto che per le sue cazzate è stato sbattuto fuori dalla Polizia e si porta dietro il rimorso del suicidio del padre, del proprio divorzio e l’odio di sua figlia. Per campare, perché proprio di campare si parla, fa l’investigatore privato e vive in casa della sorella, adorato dalla stessa e dai nipoti ma odiato dal cognato. Proprio l’amore incondizionato nei confronti di Giada, la nipotina che lo vede come un eroe che tutto può, gli fa promettere che ritroverà la sua compagna di classe, rapita? Scappata? Non si sa. È bastato che il bidello si allontanasse per pochi minuti e della bambina non c’è più traccia. Sempre più stropicciato, più insicuro più incasinato, Contrera a tenersi fuori dai casini proprio non ce la fa, oddio non è che nemmeno ci provi più di tanto, un po’ come se si fosse convinto di essere irrecuperabile, di portare in sé il seme della distruzione. Che sia vero o no, è un personaggio a cui è difficile non affezionarsi, perché sia pure esasperati i suoi difetti le sue mancanze le sue insicurezze, sono quelle di tutti, così come è quella di tutti la fatica di far pace con se stessi, con le conseguenze dei nostri errori e perfino con il “perdono” che ci concede chi ci ama e che sappiamo di avere ferito. Il caso lo risolve quasi per caso, e lo ammette, scoperchiando un verminaio ignobile, ma  questo la gente di Barriera e soprattutto Giada non lo sa e lui rimane quello che toglie un po’ di sporcizia dal quel loro piccolo mondo.  A noi non resta che aspettare di scoprire se deciderà di rimettere in piedi la sua vita o se continuerà a tentare di sopravvivere a se stesso.

LA SVEDESE

“Sulla strada non c’era più il ferreo controllo di una volta, quando quelli della Magliana s’erano presi Roma. Non erano più i tempi di Romanzo criminale.
Ora tutti facevano un po’ come gli pareva, bastava non pestarsi i piedi. Bastava sapersi muovere un po’ in rete e si potevano comprare barili di «Gina»
e tirarci su dei bei soldini”.

Sono passati vent’anni dall’uscita di ‘Romanzo Criminale’ di Giancarlo De Cataldo e tante cose sono cambiate, soprattutto in ambito tecnologico, e così come tutti noi, anche la malavita romana e non, si è adeguata a questa evoluzione.

Sharon (che ha optato per un più esotico Sharo) è una ragazza giovane, ha solo ventitré anni, vive nella periferia romana con la madre invalida, – il padre è morto – e si accontenta di vari lavoretti, tutti onesti, per sopravvivere, e
cercare di rendere la vita della madre meno dura e per quanto
possibile, accantonare un po’ di soldi per riuscire a scappare al più presto da quella periferia che le va stretta per avere, pur senza pretese
esagerate, quello che si merita.
E l’occasione le si presenta una sera quando, a causa di un incidente col monopattino, scopre che il suo fidanzato fa il pusher e per non lasciarlo nei guai, porta a termine la consegna che avrebbe dovuto fare lui e si imbatte in un aristocratico annoiato che affascinandola e in qualche modo prendendola sotto la sua protezione, scardina i suoi principi e passo dopo passo la trascina in qualcosa che non aveva preventivato, fino a far sparire Sharo e creare ‘la svedese’. Una criminale che le cupole vogliono morta.

Ambientato nel periodo di inizio pandemia il nuovo romanzo di De Cataldo si concentra sulla lotta tra le bande per avere il monopolio dello spaccio entrando nel tessuto sociale e culturale che in ambito criminale unisce la periferia al centro della capitale. Non sono solo le bande romane a contendersi il potere. Ci sono le ‘ndrine calabresi e gli albanesi, ognuna con diverse culture, usanze e tradizioni, che De Cataldo sottolinea con l’uso sapiente dei dialoghi dialettali e i tanti modi di dire, in primis il romanesco.

Una delle figure più interessanti è quella del Principe, questo aristocratico più vecchio di Sharo, ricco, raffinato, colto e spregiudicato. Completamente disinteressato a qualsiasi tipo di avventura sentimentale, oltre a dare l’input all’avvio dell’ascesa ai vertici della carriera criminale di Sharo, diventa per lei anche un punto di riferimento culturale iniziandola alla conoscenza e alla bellezza dell’arte e della mitologia come metafore di vita.
Il rapporto tra i due fa da traino a tutta la storia per la particolarità della relazione, per la differenza di età e di ceto sociale, per le cose non dette e le “lezioni” che l’uomo impartisce.
Una relazione che porta a interrogarsi, a cercare di capire il rapporto che si è instaurato e dove porterà.

Ci si chiede anche cosa sia che spinge la giovane Sharo, onesta e per bene, a decidere di cogliere un’occasione particolare, contraria a ogni suo
principio. È un diamante grezzo Sharon, che il Principe spinge a valorizzarsi, studiando e rischiando fino a farsi un nome e una “posizione” nel mondo criminale, tanto che inizia ad essere vista con sospetto prima e con rispetto poi, dai suoi collaboratori e dalle bande rivali.
Ma ovviamente non è finita qui.
In questo romanzo De Cataldo ci mostra i rapporti stretti tra potere e malavita, il disagio giovanile, l’espandersi delle nuove droghe, i cambiamenti di atteggiamento a fronte di determinate situazioni.

È L’UMIDO CHE AMMAZZA

Non c’è pace per il povero Emilio Zucchini, oste bolognese fino al midollo, che si batte senza tregua per difendere la cucina felsinea dai luoghi comuni e dagli orrori che si sentono in giro. Ogni volta che qualcuno mangia dei tortellini alla panna per dire, c’è un cuoco emiliano che ha degli scioponi. Il tortellino muore nel brodo e basta, o quando si sentono chiedere degli Spaghetti alla bolognese (che non esistono), dai ho giocato un po’ coi titoli ma la verità è che Filippo Venturi, che i libri li ha scritti e si è inventato l’Emilio, è un ristoratore bolognese per davvero e Zucchini con quel tantinello di esasperazione permessa dalla fantasia, raccoglie nella sua persona tante verità. Premesso che lui, Zucchini, di suo i guai li eviterebbe come la peste, perché è un tipo tranquillo che anela solo a vedere la gente gustarsi i piatti che escono dalla sua cucina, andarsene soddisfatta (dopo aver obbedito ai suoi diktat culinari) e tornare nella sua trattoria, i sopracitati guai li attira come il miele attira le mosche. Invece si trova suo malgrado coinvolto in omicidi, furti e reati vari, in cui non ha alcuna colpa, ma dei quali il commissario Iodice gli attribuisce a priori e a prescindere un ruolo, possibilmente quello di indiziato principale.     In breve breve la trama racconta che Alice, la sua cameriera (purtroppo solo quello) è scomparsa, alcuni dei milordini (i giovanotti della Bologna bene) vengono uccisi piuttosto brualmente e la scomparsa sembra essere non solo coinvolta ma addirittura l’assassina. Tutto questo mentre La vecchia Bologna, come tutti i bar e i ristoranti, apre e chiude a seconda dei dpcm, eh sì, perché siamo nel 2020 e ancora si avanza a tentoni fra lockdown, orari prestabiliti mezz’ora prima di renderli esecutivi, tavoli che devono essere a distanza di sicurezza ma non si sa bene se a uno due o tre metri.                                                                     Con la trama direi che basta così. Trovo più interessate invece parlare dell’autore in toto, non credo abbia velleità di diventare uno che scrive best sellers ma sicuramente scrivere è una passione che coltiva con ottimo profitto, fra l’altro da anni tiene una rubrica su Repubblica, oltre ad aver pubblicato svariati romanzi. Il suo è un giallo intriso di ironia nella giusta misura, volendo restare in ambito gastronomico, la dose giusta come quella del caffè che deve assorbire un savoiardo per un tiramisù perfetto. Troppo rende il dolce acquoso, troppo poco e risulta secco. Ecco i gialli di Venturi sono così, più attento al linguaggio e alla misura che alla trama gialla, che comunque non è per niente male, anzi. Il contrasto fra Zucchini, che spesso nemmeno si rende conto di essere coinvolto in fatti criminali, e il commissario Iodice che regolarmente lo mette al centro delle indagini, o come principale sospetto o come complice, è il succo di ogni romanzo. Un commissario fra l’altro imbecille e presuntuoso come pochi, al punto da essere una figura fra il patetico e il ridicolo, che per sua fortuna a dei collaboratori che invece ragionano e alla Beretta preferiscono i neuroni.  Coraggiosamente Venturi, ha ambientato questo romanzo in piena pandemia, riuscendo a ridere e farci ridere, di quei mesi folli in cui eravamo tutti virologi e tutti spaventati da qualcosa di talmente grande da sembrare impossibile; “vittime” di misure emergenziali che viste da “lontano” oggi verrebbe da definire più che altro demenziali, non fosse altro che per il modo in cui hanno trasformato le città i rapporti umani le persone. Non era facile perché al di là della facile ironia, i morti ci sono stati eccome ma Venturi è stato bravo davvero a incastrare in quella dolorosa follia collettiva, un dolore personale capace di sconvolgere le persone, affrontando un tema decisamente purtroppo sempre attuale e con un piede nella cronaca vera . Se a una prima lettura può sembrare un gialletto leggero, fermandosi un attimo ci si accorge che non è affatto così e avendo letto i precedenti, si coglie la crescita autoriale dell’oste scrittore. Vale la pena quindi lasciarsi conquistare da Zucchini che oltretutto, diventa a sua insaputa (forse), uno spot vivente per la sua città. Impossibile leggerlo e non essere presi dalla voglia di andare a perdersi per almeno un fine settimana nella città delle due torri.

LA BANDA DEI COLPEVOLI

Hai 55 anni e decidi che vuoi un tatuaggio, ci pensi da anni ma la paura del dolore fisico e l’idea che sia una cosa che ti resterà sulla pelle per sempre, ti ha frenato. Arriva il momento e su due piedi, decidi che sarà un geco, un piccolo geco una decina di cm sopra il malleolo sinistro. Dolore 0, gratitudine alla tatuatrice (la mia amica Rosalba, santa Rosalba) e innamoramento immediato per Arturo (sì il mio geco ha un nome). Ormai da un anno è praticamente il mio animale domestico, quindi immaginatevi un po’ come ci sono rimasta quando ho scoperto, leggendo La banda dei colpevoli, che uno dei protagonisti è un geco psicopatico, no, non appena un po’ balengo, psicopatico proprio. Passato l’attimo in cui ho guardato Arturo con un minimo di turbamento, stando ben attenta a non farmi vedere mentre ridevo come una pazza,  mi sono lasciata prendere dall’atmosfera che la Savioli riesce a creare. Reale realissima, con quelli che sono i problemi quotidiani di una donna che lavora e il cui marito per di più, ha avuto un avanzamento di carriera che lo ha portato e lo porterà più volte ad essere lontano, parecchio lontano e con non pochi problemi di adattamento, per qualche giorno; Luca, il figlio cinquenne, lamenta dei malesseri sospetti che costringono la nostra Anna a correre più di una volta a scuola per recuperarlo, salvo scrutandolo dallo specchietto, vederli scomparire praticamente all’istante e naturalmente pensare che è colpa sua, per fortuna il gatto in quella casa ha uno spirito che Montessori levati proprio. Più vera del vero insomma, eppure nello stesso tempo, complici forse i dialoghi con un ficus adolescente e un’erbaccia in proporzione vecchia e saggia, tartarughe artritiche la psicanalista sostituita – egregiamente – da una rana toro, più altri innumerevoli interlocutori, quella stessa atmosfera reale realissima di cui parlavo prima, diventa anche un po’ fiabesca. Ok ok, molto fiabesca, perché ci sono anche le luci di Natale e la sostituta nonna che prepara biscotti e torte e Lavinia, sorella svampita che ha comprato casa proprio sopra l’appartamento in cui è avvenuto l’omicidio su cui Cantoni e soci, dovranno indagare.                                                                                                              Dice sì ma così sono capaci tutti, a parte il fatto che non è vero, perché dar pensieri e voce a delle creature così disparate e dare l’impressione che se potessimo sentirli anche noi, sentiremmo esattamente quei discorsi, è una sfida che perderebbero in tanti e se questo non bastasse, va detto che la presenza di queste distrazioni, non toglie un grammo né alla trama gialla che è ineccepibile, né alla fatica della vita. Una fatica come quella di tutti ma alleggerita dalla convinzione che un sorriso, magari non entusiasta ma sincero, che un pochino di buona educazione, il medesimo rispetto per chiunque stia interagendo con noi e non ultimo il primo principio dettato da Esculapio: non nuocere, siano il viatico per arrivare alla serenità. Forse anche Sarah ha una rana toro estremamente preparata perché Annarella, romanzo dopo romanzo, sta diventando grande, ha imparato tante cose su di sé e sugli altri e guardandoli con occhi diversi, più distaccati dall’idea che ha di loro, scopre che o sono cresciuti anche loro o lei si era sbagliata e in questo modo, affronta tutto con una serenità che è propria di chi è risolto o ha capito la strada giusta da percorrere.                                                                                Ragazzi fidatevi, La banda dei colpevoli non può mancare nei reader o nelle librerie, e se non incontrate Jasoneh, il coniglio da sgabuzzino e gli algidi occhi d’oro di cui si innamora Otto (che per chi non lo sapesse è un enorme alano arlecchino), beh, non sapete cosa vi perdete.

LA SETTIMA LUNA

Un titolo che richiama la prima strofa di una canzone dell’indimenicao Dalla non volutamente penso, ma a posteriori posso anche dire che tutto sommato, la strofa ci sta senza neanche stiracchiarla, ok scusate la digressione ma ho i neuroni sensibili al caldo. Dunque torniamo a bomba sul romanzo, credo sia stato sir Conan Doyle per bocca di Sherlock, a dire che “una volta eliminato l’impossibile, ciò che rimane per quanto improbabile deve essere la verità”. Chiunque sia anche vagamente appassionato di letteratura gialla, conosce questo paradigma figuriamoci quindi se un autore ormai entrato a pieno titolo nel novero dei grandi nomi del noir italiano, non solo lo conosce ma lo mette in pratica alla perfezione. L’unità investigativa sui crimini seriali, è nata dopo la soluzione di due casi, uno che sembrava destinato all’oblio e uno che ha avuto una risonanza eccezionale con il coinvolgimento praticamente dell’intera nazione. Inestita dell’ufficialità, la squadra interregionale Strega rais Croce Pavan, che ricordiamo non ha limiti territoriali,viene inviata a Garlasco dove la scomparsa di una giovane donna, che ben presto si trasforma in omicidio, ricorda terribilmente il primo caso di cui si sono occupate Rais e Croce in Sardegna. C’è qualcosa di rituale che a Garlasco è decisamente fuori contesto e i punti coincidenti sono davvero troppi perché gli inquirenti non prendano questa decisione. La scelta di ambientare il romanzo in un paesino lombardo diventato famoso per un omicidio che ne ha fatto per molte settimane l’ombelico d’Italia, con i  pochi alberghi e locali che hanno goduto di un’impennata nei loro introiti grazie agli inviati di ogni giornale rivista o emittente tele radiofonica che fosse, non è casuale ma voluto per tutta una serie di ragioni che l’autore ha ben spiegato durante una presentazione, non ve ne posso parlare perché il rischio spoiler è altissimo – anche se non per individuare il colpevole – diciamo che ha voluto puntare un faretto anche su un fenomeno di cui si parla troppo poco ma è un problema di quelli belli grossi (che probabilmente mai troverà soluzione).  La narrazione rispetto ai romanzi precedenti è o dà l’impressione di essere più lenta, poca azione e un gran lavoro di studio sulle persone coinvolte. Scavare andare oltre il detto, cogliere le incongruenze e da quelle partire per cercare il movente che apparentemente non c’è. Se in Sardegna, fra gli incredibili scenari dell’interno e il mare, creare suggestioni è relativamente facile, farlo nella piatta campagna lombarda è un gioco che richiede un notevole talento ma Pulixi ci riesce perfettamente tanto che in alcuni punti mi sono trovata a chiedermi se non ci fossero due scene del crimine. Ci sono alcune cose che mi hanno lasciata perplessa, piccolezze che i più con cui ho parlato non hanno nemmeno notato, il consiglio che posso dare – ovviamente parlo solo per i maniaci come me – è di non soffermacisi perché fondamentalmente, sono funzionali alla storia. L’evoluzione dei personaggi e delle dinamiche che si sono instaurate, è palese, prodromica sicuramente ai prossimi romanzi ma mai snaturante, in più si aggiungono figure che abbiamo già incontrato e altre che probabilmente ritroveremo. Un noir che tocca, com’è giusto che sia, tasti che suonano note orribili, quelle che ognuno di noi potrebbe avere nascoste e grazie a Dio restano nella maggior parte della gente, mai suonate. Un’altra ottima prova dello scrittore sardo che ad ogni nuovo romanzo ci regala emozioni e il suo talento.

DELITTO SUL LAGO

Avete già incontrato il vicequestore Spina? È apparso lo scorso anno sugli scaffali delle librerie e io mi sono innamorata di lui e della sua suqdra sbarellata, no, sbarellata forse non è il termine esatto, allegramente variegata ecco. Lui, il vicequestore Spina, soffre di quella strana patologia che non gli fa sentire niente, non sa cosa sia il dolore il caldo il freddo l’urgenza di trovare un bagno e il conseguente sollievo, non conosce fame e sete nè la puzza o il profumo. Detta così sembra quasi una cosa bella ma a parte il rischio di rompersi o tagliarsi accidentalmente e morire senza sapere perché, che la tua vita sia regolata da un apparrecchietto che ti dice quando è ora di mangiare o se devi bere, se devi andare a svuotare la vescica o se ti devi mettere una maglia e se hai delle eiaculazioni senza sapere cosa sia il pacere, proprio bello non è. È anche stato lasciato dalla donna che ama e non sa il perché. Diciamolo, non è che la vita di Spina sia proprio un carnevale di Rio, lui però è un tranquillone, abituato giocoforza alla sua vita, affronta il lavoro con calma, subendo com’è ovvio le solite pressioni dai superiori e contando sulla squadra. Potreste chiedervi a questo punto perché mi piaccia così tanto, e io vi rispondo che Sardelli mi porta in una Roma che non è patinata ma non è neanche quella delle borgate “degradate”, che la descrive ma senza enfatizzarla, con la misura di uno che sa di quel che parla, che così come per la città, fa per i personaggi. Nessuna esasperazione di quelli che sono gli inevitabili tratti caratteristici di ognuno senza esagerarli, cosicché nessuno diventa neanche lontanamente né una macchietta né un eroe. Le trame sono sufficientemente intricate perché chi ama il giallo sia soddisfatto ma non richiedono geniali intuizioni (e relativi geni), solo lavoro. Pochi colpi di scena calibrati perfettamente, quel tantinello di sentimenti che non guasta e qualche risata o sorriso. Insomma un mix perfetto per godersi una bella storia, condita con un gusto delicato ma deciso e scritta decisamente bene. Non mi pare poco eh. Ah, se vi piacesse come suppongo, da leggere c’è anche il primo, Il venditore di rose.