UNA COSA DA NASCONDERE

Il romanzo precedente è uscito nel 2017, potete immaginare la voglia di metterci sopra le mani e divorarselo, finalmente arriva il momento e mannaggia la pupazza a pagina 50 meditavo il lancio dalla finestra, a pagina 98 o giù di lì, ero certa che lo avrei lanciato. Due cosi indescrivibili (sì sì ho deciso di non usare il turpiloquio ma avete capito di che cosi parlo).  Una Londra che di solito non trovo nei libri, e già un po’ mi son sentita spiazzata,  dei miei amati non c’è traccia, in compenso ci sono delle descrizioni che farebbero imbestialire i santi. Ovvio che un attimo prima dell’abbandono, suppongo non per caso, sono entrati in scena i nostri e lì ho pensato che volevo proprio vedere come diavolo avrebbe intrecciato le storie. La George è quel che in America si chiamerebbe un fottuto genio. Alla fine il risultato è che ti bevi le rimanenti 400 pagine senza fermarti e alla fine ti esce un’esclamazione che userebbe Rocco Schiavone se qualcuno gli dicesse di aver fatto 6 al superenalotto. Sempre per evitare, inizia per m e finisce per i.

Stabilito che se già amate l’autrice qui la adorerete e se non la conoscete dovete darvi una mossa perché è una lacuna brutta, mi scappa una riflessione su come sia facile fare una cosa sbagliata nel tentativo di farne una giusta. Seguo la George sui social, è una dem molto attiva, a volte rasenta la violenza nelle sue esternazioni contro i repubblicani. Ovviamente è attivissima anche sul fronte razzismo, nel senso che è giustamente contro. Ecco secondo me qui, nel romanzo intendo, cercando (al di là del giallo che è magistrale), di far comprendere, di avvicinare i suoi lettori alla cultura africana, nigeriana nello specifico, cercando di sottolinearne la parte sana, e se leggerete il libro capirete cosa intendo, ottiene l’effetto opposto. Il bene non fa notizia, il bene non ti resta impresso, l’eroe buono lo dai per scontato. In compenso l’orrore di certi atteggiamenti di retaggi culturali che purtroppo resistono a qualunque tentativo di civilizzazione, ti resta impresso a fuoco. Il ritratto dei nigeriani ma in generale dei neri che vivono in Inghilterra (ma potrebbe essere l’America o l’Europa), che esce dalle pagine, è proprio brutto. Gente che non vuole integrarsi, che vede in chiunque non sia nero un nemico, qualcuno da sfruttare ma tenere lontano, i bianchi vanno disprezzati a prescindere e se ti sembrano amici, fingono. Davvero sgradevole nel complesso nonostante alcuni dei protagonisti neri siano assolutamente positivi. Spero e suppongo che abbia un po’ calcato la mano, ma il fatto che spesso, anche in Italia, se muovi qualunque osservazione, che niente ha a che vedere col colore, i neri si “difendono”dandoti del razzista, temo che non sia così distante dalla realtà.

Ferma restando quindi l’ammirazione per la scrittrice, che ripeto e ribadisco è grandiosa, mi resta la perplessità sul resto, su come nessuno dell’enorme staff di collaboratori, si sia posto il problema che  chi ha nell’animo anche solo una briciola di razzismo, leggendo questa storia si sentirà legittimato a sentirsi superiore, avallato nel suo considerarsi migliore e questo devo dire, mi dispiace assai.

Una mano più in là

Forse è colpa del fatto che se la vita non avesse deciso diversamente, avrei voluto fare il medico, o che ho vissuto un’infinità di pranzi e cene sentendo parlare dei casi clinici che i miei vedevano ogni giorno, rimane che il racconto di come passo dopo passo, sutura dopo sutura, un manipolo di uomini, ha fatto quello che sembrava impossibile mi ha inchiodata alle pagine. Oggi i trapianti in generale sono cosa usuale – mai abbastanza purtroppo – però se ci si ferma a pensare, anche solo guardando la copertina, a quante connessioni ci sono in una mano, fra tendini nervi arterie vene ossa e soprattutto a quanto sono minuscole, ci si rende conto di quanto enorme sia stata l’impresa e di quanto studio e determinazione abbia richiesto. Una mano più in là è una storia che a buon diritto è entrata nella Storia ed è il ritratto di un uomo che dovrebbe essere un esempio per ogni giovane che si avvii a diventare qualcosa nella vita. Un uomo che ha saputo coltivare una determinazione micidiale Non ha recriminato nemmeno quando per ben cinque volte, dall’autunno del 2002, dopo un numero esorbitante di pubblicazioni, dopo la direzione della Microsearch Foundation di Sidney, eseguito il primo trapianto di mano al mondo, avere operato in tutto il mondo, comprese Africa e India dove con la sua onlus ogni anno ricostruisce mani a chi non ha neanche l’aspirina, si candida al concorso per una cattedra di Professore di ruolo alla Insubria, per la materia che già insegnava come associato alla Bicocca, lo silurano a favore di qualcuno che non arriva a un decimo di quello che ha fatto lui. Cinque volte ha vinto il ricorso e ciononostante non gliel’hanno data. Non una parola ingiuriosa, solo la voglia di denunciare perché questo sistema marcio e malato cambi. Ha incontrato i potenti della terra, ha stretto le mani di tutti, ma per Marco Lanzetta Bertani, le più importanti, restano quelle dei suoi pazienti. Dai primi anni ’90 un giovane chirurgo insegue letteralmente in tutto il mondo i migliori da cui imparare. Lo fa con un obiettivo ben preciso, diventare lui il migliore nel suo campo. Nello specifico la microchirurgia della mano.Continua a studiare e lavorare, finché a Lione il 23 settembre 1998 fra mille difficoltà di ogni tipo, mediche etiche psicologiche logistiche e legali la mano espiantata a un morto, riprende vita.

IL FRANCESE

So blue so noir

Stamattina o forse ieri, ho visto sul profilo di Massimo Cotto – se non sapete chi è, pentitevi – due foto, la targa affissa al muro ddella casa dove è nato Giorgio Faletti e pochi metri più in là un rudimentale pisello, madò, la versione gentildonna pensavo non l’avrei vista mai, transeat. Mi ha irritato vedere le due immagini accostate, poi ho letto il commento, un pensiero su come probabilmente Giorgio avrebbe riso grazie al suo sguardo sul mondo. Vero, inesorabilmente vero quel che ha scritto. Mi è tornato in mente quello sguardo, quegli occhi azzurri che sembravano gelidi e invece ridevano. Li sento eh i vostri “ma dove diavolo vuole andare a parare?” Arrivo a un altro paio di occhi, altrettanto apparentemente gelidi che invece quando poi li conosci vedi che ridono. Gli occhi di Massimo Carlotto. Che giro eh, eppure c’entra, perché dei libri come quelli che sccrive Carlotto, possono venire solo da uno sguardo capace di vedere, non guardare ma vedere e raccontare quello che la maggior parte di noi guarda e basta. La storia de Il francese, il macrò – un pappone sui generis -è quella di tante donne che non rientrano nei circuiti consueti della prostituzione. Non sono le donne di strada, vittime in genere di piccoli delinquenti, tentacoli insignificanti e intercambiabili di un polpo gigante, sia le donne che i pappa, né le escort di lusso che non rendono conto a nessuno. Il Macrò ha raccolto solitudini, desideri, obiettivi e li ha organizzati. Ognuna delle sue donne ha uno scopo per fare quello che fa e ha una vita che esula, la prostituzione è un frammento delle loro giornate. Toni Zanchetta, che di francese ha solo il soprannome, in realtà è un veneto nato in provincia, quella provincia tanto cara a Catlotto, dove vigono ancora dei codici, dove quello che conta è l’apparenza. Su questo si sviluppa un romanzo forse un po’ meno duro del solito, ma affilato come un bisturi, su come un inciampo, banale se vogliamo, un granello di sabbia si infila nel meccanismo perfetto inceppandolo inesorabilmente. La trama è ovviamente perfetta, perché sempre di un maestro parliamo, mala vera storia è quella di come si sgretola centimetro dopo centrimetro, mattone dopo mattone, il muro su cui Zanchetta ha dipinto la sua immagine e il suo benessere economico. Il mirino di Carlotto è implacabile, suoi romanzi sono delle foto in bianco e nero, dove ogni particolare viene esaltato e il quadro generale perde importanza per lasciarla ad ogni singolo. Ecco dove torna l’importanza dello sguardo, quella capacità di focalizzarsi su qualcosa. Non c’è ombra di giudizio, che sarebbe facile visto l’argomento, non una parola in più dello stretto necessario per farci entrare nelle miserie umane. Un noir perfetto, senza nemmeno un lumicino di speranza nella redenzione dell’umanità. Solo la fredda implacabile luce da sala operatoria che non lascia spazio ad ombre e la penna di un grande autore con uno sguardo distaccato che può avere solo chi ha imparato nel raccontare, a prendere le distanze dalle emozioni senza averle perse. Ci vogliono occhi di ghiaccio che sembrano non potersi addolcire. Ci vuole ironia per guardare il mondo piccolo dove sono spuntate le nostre radici, e raccontarlo da lontano dove sono arrivati i nostri rami. Bisogna avere orecchio diceva Jannacci, bisogna averlo tutto e Carlotto ce l’ha. E per chiudere il cerchio, chi ha avuto in sorte di poter vedere gli occhi di cui parlo, non potrà che darmi ragione, gli altri dovranno fidarsi e “acccontentarsi” della meraviglia di uan scrittura perfetta.

Vuoi non scrivere due parole su Sanremo?

foto scelta appositamente per… “quelli che di Sanremo non hanno capito niente, oh yeah”

Per una paranoia mia con cui non sto a tediarvi, avevo deciso di ascoltare le canzoni, in radio spotify youtube ma non guardarlo, poi ci son passata per sbaglio, su Rai1, e niente…

Allora 1° serata – stanca morta, un paio di canzoni e la Muti non pervenuta, per fortuna.

Serata 2 – ma di quella pora creatura, la Cesarini, c’era proprio bisogno? Intanto se devi fare un discorso sul razzismo, lo fai fare a qualcuno che lo ha subito davvero, non a una donna- dai ha 30 anni mica 15 -usando la giovane età per giustificarne l’impreparazione. Sei un’attrice? Bon allora tieni il palco, non ci sono colori né emozioni che tengano. Ti sei fatta il mazzo per laurearti? E quindi? Sei nera? E quindi? Per fortuna ci sono le canzoni.

3° serata. Gianluca Gori meglio noto come Drusilla Foer. Adorato, darei non so cosa per avere la classe che ha quel personaggio (e di conseguenza quell’attore). C’è gente in giro, ma giuro che li ho sentiti con le mie orecchie, che confonde la biografia di Dru con quella di Gori. Che è anche possibile, di lui non si trova nulla se non la data di nascita e che è un attore – oltre a qualche foto, qui andrebbe aperta una parentesi perché non ho ancora chiaro se sia più figo lui o lei – biografia e invidia a parte, ma che personaggio e attore è? Gigantesco come Paolo Poli, ironico come Gasmann, autoironica velenosa intelligente, nobile come queen Lilibeth quella vera, ignobilmente bella come donna e niente male l’uomo. Provvisto di bauli colmi di buonsenso. Si è capito che li amo?

4° serata, quella delle cover. Ho pianto riso ballato cantato, mi sono divertita, ma tanto e per davvero. A due giorni da quando abbiamo “perso” Monica Vitti mi hanno regalato la Giannetta. Mea culpa, non l’avevo inquadrata causa trasmissioni che non mi interessavano. Mamma mia che roba, che tenuta che padronanza del mestiere. Da adesso ovunque sarà possibile me la godrò. Ma a parte lei e il duetto con Lastrico, che bello è stato? Ho sentito tutti vicini come fossimo a una tappa del Jova beach party. Abbiamo fatto tutti le stesse cose ballato cantato pianto riso e goduto, tanto!

Sulle canzoni non dico niente, sono gusti e ognuno ha i suoi, quindi sarebbe inutile. Qualche canzone mi è piaciuta meno di altre, qualcuna mi piacerà per tantissimo tempo e praticamente tutte mi hanno emozionata, ma un riconoscimento è doveroso. Amedeo, Amadeus, Ama, sono davvero felice per lui, per carità, nessuno ha mai messo in dubbio la sua professionalità, ma in Rai sembrava un po’ il figlio meno considerato e invece ha dimostrato di avere due attributi da cannone, con o senza spalle, senza secondo me è anche meglio. Misurato con la capacità di qualche eccesso al momento giusto, un direttore artistico spettacolare che ha intercettato tutti, i giovanissimi i medi e i boomer, li ha presi e li ha tenuti lì inchiodati, riuscendo anche a mandarci a dormire a un orario civile, insomma sempre di Sanremo parliamo. Se poi aggiungiamo che ha aperto la strada alle Olimpiadi (dopo l’estate che abbiamo avuto), embé, tanta roba gente.

Oddio, a momenti mi dimenticavo, nel giorno in cui pubblico i miei due soldi, Blasco, il comandante, quello che ha scritto delle canzoni così belle che… Compie 70 anni. Mi hai rovinata Vasco, a forza di volere una vita spericolata, son 40 anni che so sulle montagne russe, ma tanti auguri lo stesso, ti si vuol bene anche per quello

L’equazione del cuore

è bella perfino così.

Se avete letto anche solo un post o un articolo di Maurizio de Giovanni, riconoscerete il tratto, ma scordatevi il resto, non c’è noir né giallo in questa storia se non lo scoprire che cosa può fare l’amore. Perché questo è, come da titolo del resto. Una storia che parla d’amore in ogni pagina. Quanto possa essere coinvolgente Maurizio, non c’è bisogno di ricordarlo, ma quanto possa dare oltre al solito, lo si scopre con la caratterizzazione dei termini di questa equazione che diventano un uomo sua figlia suo nipote, e ancora suo genero, la baby sitter di Checco, una donna tradita e tante altre persone. Non è mica una poesia eh, no no, è proprio un’equazione matematica (molto meno romantica di come è nota ovviamente e per giunta anche un po’ romanzata ma secondo me se ne fregano anche i matematici), eppure sorpresa sorpresa, riesce a spiegare perfettamente quel che succede agli esseri umani, le cui esistenze per una ragione o per l’altra si incrociano. Certo che si intersechino la vita di un nonno e un nipote è dato per scontato ma non lo è poi così tanto e sempre. Massimo è un nonno sui generis, vive la sua solitudine accontentandosi di quel rapporto quasi convenzionale che ha con la figlia dopo la morte del collante madre. Sposata e madre a sua volta, vive lontana dall’isola in cui torna solo d’estate con figlio piccolo, ma per il resto i rapporti sono ridotti alla telefonata standard : come va tutto bene? Claudio e Francesco? Bene papà, Claudio lavora tanto e il piccolino è un amore.Tu come stai? Quanti ne conosciamo. Eppure ecco il colpo di teatro, un banale incidente d’auto di figlia e genero, che lo costringe a spostarsi in quel nord di provincia freddo e tanto ostile coi forestieri e lo porta inaspettatamente a conoscere quella figlia che è così diversa da come lui immaginava. Ma soprattutto gli fa capire quanto poco abbia saputo esprimere e ancora di più provare quei sentimenti che si danno per scontati. Questo dice l’equazione, in soldoni, due insiemi che vengono a contatto fra loro anche se poi si allontanano non saranno più gli stessi, avranno in sè qualcosa dell’insieme che hanno toccato e se ci pensate, se vi soffermate a guardare chi siete, non potrete che convenire di essere fatti di tante piccole parti che vi hanno lasciato tutti quelli che avete incontrato. Lo aspettavo da 7 anni questo romanzo, quando Maurizio mi ha parlato di questa idea l’ho amata all’istante, ho cercato la rappresentazione grafica dell’equazione e mi ha affascinata, è bella anche scritt in matematichese, da non crederci. L’ho usata come immagine di copertina, l’ho applicata, ho immaginato come e cosa sarebbe successo, ho aspettato che il seme mettessse una radice e trovasse il vaso in cui sbocciare. La bellezza che ci ho trovato è straziante ma impagabile. Questo più di ogni altro è un romanzo che si leggge col cuore, la copertina che contrariamente al solito vi posto qui sotto, dice tutto. Io, per ragioni personali posso solo dire a quel pesciolino di ricordarsi chi è, di allungare le sue piccole braccia verso chi ha capito come aprire le sue.




LE OSSA PARLANO

E ne hanno di cose da dire




Rocco Schiavone non è più un personaggio, è un uomo un poliziotto. E prepotentemente il poliziotto, la guardia come da lessico romanesco, prende il sopravvento sull’uomo o almeno questo è quello che sembra, può essere perché il “caso” è l’omicidio di un bambino, l’abuso dell’infanzia una roba che fa accapponare la pelle che non si può accettare che scatena nei confronti dei pedofili una rabbia cieca e profonda. Rocco stavolta indaga, per davvero, con la voglia di trovare chi ha fatto del male a un’anima innocente, eppure nonostante mai come in questo romanzo il focus sia trovare l’assassino, io ci ho trovato più che in altri, l’uomo.

Un uomo che ha visto sgretolarsi tutto e si è sgretolato di pari passo con la sua vita. Marina è morta ed è sempre più lontana, lo spinge a lasciarla andare e ricominciare a vivere. Sebastiano, nelle cui mani Rocco avrebbe messo la sua vita, se le è sporcate del sangue di Marina e le ha passate con metaforiche carezza sul viso di Rocco. Sono sole alcune delle coltellate che la vita ha inferto al vicequestore. Su queste ferite e su come Schiavone abbia affrontato fino a qui tutto quello che la vita gli ha messo davanti, applicando pedissequamente la teoria del romanissimo sticazzi, Manzini ha costruito dei romanzi che si sono fatti via via più profondi senza perdere mai la leggerezza. Qualcosa è cambiato però e si sente. Ha preso l’amarezza di questi ultimi due anni e l’ha trasformata in un romanzo tosto, forse il più tosto di tutti, no, di tutti no. Non si ride come al solito, anche se ovviamente qualche sorriso scappa, il tema non lo consente, eppure non ci si stacca dalle pagine. Si indaga insieme alla squadra si esamina ogni dettaglio che aiuti a fare un passo in direzione di chi ha fatto di quel bambino un sogno interrotto, Mirko che diventa il bambino di ognuno, diventa la nostra speranza nel futuro che vediamo tradita. La rabbia e il dolore, quello che stiamo provando tutti probabilmente, vengono in superficie come quelle piccole ossa che  Manzini trasforma in un tremendo meraviglioso viaggio che inevitabilmente comprende degli abbandoni e dei nuovi punti da cui ricominciare una volta scoperto tutto quello che ci racconta quel che resta. E non fatevi “spaventare”, Sia pur meno cazzone dl solito, fra le pagine non c’è solo amarezza, c’è anche una lucina in fondo al tunnel che per una volta potrebbe non essere il fanale del FrecciaRossa. Ancora una volta, chapeau monsieur Manzini.

STRENNE NUMBER TWO

Seconda tornata di consigli, che non vorrei mettervi ansia ma fra 7 giorni e qualche ora, si aprono i pacchetti. Se trovo il tempo prima dei 7 giorno faccio la terza infornata, non garantisco, ma voi una volta che siete in libreria scatenatevi pure. Ah, va da sé che non sono solo gialli perché leggere è bello sempre. Ri ah, di alcuni libri ho fatto considerazioni di tipo tecnico in altre sedi, non mi sto contraddicendo consigliandoveli, sono semplicemente conscia che molti di quelli che frequentano il blog e magari decidono di seguire i consigli, non sono addetti ai lavori e ovviamente eventuali “difetti” di tipo tecnico, non li noterebbero nemmeno. Era una precisazione necessaria perché non vorrei si pensasse che sono incoerente o peggio che pratico il lecchinaggio. I veleni quando sono strettamente necessari li spargo senza pietà, ma queste non sono recensioni bensì consigli.

Un’autobiografia che mi sento di definire tenera, è quella di Paolo Conticini, se mi permettete la libertà, di quel gran figo di Conticini. Bello è bello, bravo è bravo e credo non ci sia bisogno di ricordare tutti i suoi successi in televisione e in teatro, quello che non si vede è che è una persona deliziosamente semplice (e garantisco che con i nomi di vip che se la tirano riempirei dei bauli), perché sia così lo si scopre leggendo appunto questo racconto che fa della sua vita, la racconta al nonno ormai scomparso che però ha avuto un’importanza fondamentale nella sua infanzia con i fatti e con l’esempio. Il segreto forse è nel titolo HO AMATO TUTTO – ElledibK edizioni – Conticini ammette tutto, di essere stato facilone, non a caso lo chiamavano arruffamondo, uno che non aveva pazienza e si buttava in ogni cosa senza troppo pensarci, eppure da tutto ha saputo trarre insegnamento, ha incamerato e imparato, ammette anche, come è giusto che sia, di essersi a volte trovato al posto giusto nel momento giusto, perché non è mica una vergogna saper approfittare della fortuna se e quando arriva. Leggero e sincero, salta dai provini alle corse in bici di quando era bambino, dalla palestra alle passerelle e ala gratitudine, quella per ogni amico collega o maestro nomini. Una strenna che farà piacere a chi ama le autobiografie ma anche a chi ama l’attore o semplicemente per chi vuole sapere come si scopre di avere un talento.

Episodio n° cinque credo per Vanina Guarasi, la vicequestore palermitana che vive e lavora a Catania. La qualità del giallo è ottima, ma di sapere come inventare trame solide e buone, la Cassar Scalia lo ha dimostrato fin dal primo romanzo, meno scontato riuscire a creare un personaggio a cui i lettori si sono così affezionati. Vanina è incasinata, piena di cose non risolte ma non si piange addosso, al massimo si lascia scappare qualche lacrima davanti a uno dei vecchi film di cui fa collezione, lavora sodo e ha creato quel feeling indispensabile fra i componenti della sua squadra, si fa coccolare quando riesce dall’anziana vicina di casa che la asseconda (meravigliosamente) nella sua passione per il cibo e sta imparando, senza troppa fatica, ad amare Catania e la Muntagna senza dimenticare il suo amore per Palermo. Che poi diciamolo, io lo consiglio perché è l‘ultimo uscito, ma nulla vieta se il destinatario del dono non la conosce, di regalare il primo e lasciare che si affezioni dall’inizio. – IL TALENTO DEL CAPPELLANO – Einaudi Editore

Il terzo consiglio è per chi ama lo sport, dopo La cena degli dei, Marino Bartoletti aveva ancora troppi personaggi (per noi) e amici (per lui) da ricordare e omaggiare. Anche qui come detto prima, il consiglio è doppio, nel senso che se non è stato letto, come strenna vale anche La cena. È una specie di favola in cui Enzo Ferrari, personaggio bello tosto da vivo, non perde il piglio nemmeno in paradiso e briga per incontrare in circostanze particolare studiate ad hoc, personaggi che hanno fatto parte della sua vita o che avrebbe voluto aver incontrato e conosciuto. IL RITORNO DEGLI DEI – Gallucci Editore è un modo come dicevo all’inizio, per ricordare uomini e donne che ahimé hanno lasciato questo mondo probabilmente troppo presto (lasciando tanto di loro, persone che abbiamo amato per le loro imprese sportive e non) evitate solo di regalarlo a chi è amante del genere giallo non sto a spiegare ma state sulla fiducia, a meno che la stessa persona non sia un fan sfegatato dell’autore o una persona che ama le favole in cui si sa si possono incontrare gli unicorni e risentire per esempio, l’irresistibile risata della Pelloni (giusto per dirne una).

CONSIGLI PER LE STRENNE

Consigli a pioggia, anzi a neve ma se le perturbazioni si spostano, i suggerimenti invece restano on line, quindi prendete nota che un libro sotto l’albero è sempre un bel vedere.

Partiamo con l’ultimo Lucarelli,  ve lo ricordate Almost Blue? Nel caso non lo aveste fatto prendete anche quello come suggerimento. Dopo anni l’Iguana torna, nel momento più sbagliato. Grazia Negro, la poliziotta che lo ha fermato è in sala operatoria, con un cesareo ha appena. Spietato. È una parola che se ci si sofferma sopra fa paura, perché puoi sperare nell’attimo di pietà di chi uccide per denaro, per gelosia, per odio. Lui non sa cosa sia la pietà lui uccide e basta, senza un perché. Uno di quegli autori che ti fanno mettere sul divano con la sensazione di farti un caffè con un amico che ha un sacco di cose da raccontarti.  Ahimé è anche capace con i suoi capitoli brevi e incisivi come un bisturi ma soprattutto i suoi colpi di scena, di farti saltare e cadere dal comodo divano . Lèon – Einaudi Stile Libero

Restiamo sul giallo con un altro pezzo da novanta, Donato Carrisi e la sua Casa senza ricordi – Longanesi. Il protagonista è ancora Pietro Gerber, l’ipnotista fiorentino che si occupa, anche per il tribunale, di bambini. Forse più di qualunque altro autore non fa sconti, non abbellisce la realtà, come facciamo quasi tutti quando parliamo di bambini, ne riconosce e ne accetta come naturalela crudeltà. Perché esiste, forse semplicemente perché non ancora mediata dalla coscienza. Lui con le parole ci fa il giocoliere, arrotola e srotola gli avvenimenti con cui compone i suoi puzzle trascinando i lettori in un vortice con poche, veramente poche pause per rifiatare. E quando lo finisci, quasi ti manca che ti manchi l’aria, a volte anche per quanto ti fa inca**are, perché per qualche attimo, hai la sensazione di non aver capito niente, ma tranquilli, un paio d’anni e ne scrive un altro.

Il terzo consiglio ha bisogno di qualche cautela per l’uso, non mettetelo sotto l’albero di chi è troppo sensibile, soprattutto se lo è nei confronti degli animali, o almeno avvisate di leggerlo quando non si è particolarmente fragili (ma prima o poi va letto). Bernardo Zannoni, giovane autore incanta chi legge I miei stupidi intenti – Sellerio. La vita di una giovane faina raccontata dalla faina stessa, come un film d’animazione con momenti che ti straziano e altri che ti innamorano. Deliziosamente surreale ma anche crudele, così come sono le vita e la natura.

Ecchecavolo                                 il mondo secondo Imma Tataranni

Mariolina Venezia

Niente indagini per il sostituto procuratore più amata d’Italia, che la si voglia pensare con il volto di Vanessa Scalera o come la descrive Mariolina Venezia – un po’ meno bella più bassa e molto più popputa – i suoi borbottii interiori restano gli stessi e se siamo onesti, non fa niente altro che quello che capita a tutti almeno qualche volta di pensare “se dipendesse da me…”, la differenza è che Imma, lo fa più o meno con cognizione di causa. No, non è vero, nei suoi sfoghi rigorosamente mentali e non esplicitati, il magistrato si lascia andare a immaginare le pene più assurde per quelli che lei considera comportamenti che in realtà si dovrebbero configurare a tutti gli effetti come reati. Quali siano detti comportamenti ve lo potete immaginare da soli, si va dalle battute idiote, quelle che non fanno ridere nessuno se non per piaggeria allo sposta suocere, dalla penalizzazione del “ti è piaciuto?” che segue le prestazioni sessuali al diritto di sbotto.

Personalmente ho adorato questa raccolta, questa nuova ed estremamente esaustiva appendice al Codice Penale, sarà che tutto ‘sto brutto carattere che viene attribuito alla Tataranni, non lo vedo, anzi a dirla tutta la trovo estremamente razionale e sacrosantamente diretta.

        Rientrando nel ruolo di seria lettrice, il personaggio nato dalla penna della Venezia, almeno a mia memoria, mette su carta e su piccolo schermo una donna normale (per la cronaca il significato letterale è “nella norma”, ossia corrispondente allo standard della maggioranza, perché si sappia, la Tataranni non è la sola ad essere stufa marcia del politicamente corretto). Né bella né brutta, bassetta come lo sono la maggior parte delle donne del nostro sud – a meno che non appartenenti al ceppo normanno – non è nemmeno particolarmente intelligente o geniale, non lo è mai stata ed essendone consapevole, ha applicato l’unico comportamento logico, si è impegnata tanto, fino ad arrivare a fare quello che desiderava fare. Non soggetta alle passioni dell’adolescenza ha fatto il suo senza esagerare, fino a quando ha incontrato Pietro, normale anche lui, non sarà un amore da film, ma da filarino è diventato un fidanzamento e poi un solido e confortante amore coniugale, ok non del tutto scevro da qualche ipotizzato scivolone, ma in fin dei conti gli occhi ce li ha e non è fatta di pietra e sa quando fermarsi prima di fare danni. È diventata madre con tutti i problemi che comporta crescere un figlia “sana” a dispetto della suocera che nutre manie di grandezza.

Un libro consolatorio e divertente, che se letto nel modo giusto ha secondo me una valenza sociologica importante, perché nascosto fra le improbabili norme che applicherebbe nel suo mondo ideale, c’è un messaggio forte per le donne. Siate quel che siete, siate felici di quello che vi siete conquistate con la vostra fatica, che non vuol dire accontentarsi, ma vivere se stesse senza inseguire ideali che stanno solo sulla carta o sui profili social, dove si possono applicare i filtri che nella vita vera non funzionano.

ROCK IS THE ANSWER

Massimo Cotto

 

Se siete di quelli che per prima cosa al mattino accendono la radio, che senza le cuffiette nelle orecchie non vi sentite vestiti, se ogni momento della vostra vita ha una precisa colonna sonora e per ogni stato d’animo vi viene in mente il testo di questa o quella canzone, direi che una sosta in libreria pe comprare questo libro è pressoché obbligatoria. Non ci trovate una storia, ma riflessioni pezzi di interviste – e Massimo Cotto ne ha fatte parecchie – che sono una specie di svelamento della verità. La verità della musica e dei testi, di ogni artista nominato. Per dire, vi ricordate quando Springsteen (se non ricordo male) ha chiamato la mamma sul palco perché lei ha l’alzhaimer  – con quel che ne consegue – ma quando canta e balla con lui si “ritrova”? Ecco, ci trovate queste cose qui, o la “confessione che alcuni dei pezzi più rivoluzionari Jagger li ha scritti sul divano di casa in pantofole? Tutta una roba così che però è come dire, in viva voce dai protagonisti. E gli argomenti della vita sono tanti, sono tante le domande che ci facciamo, i dubbi che abbiamo e quasi per tutti la musica ha la risposta o l’indicazione. Dice ma Cotto si è limitato a raccogliere i pezzi? A parte che garantisco sarebbe stato sufficiente, ma no, alla fine di ogni sottocapitolo (è fatto strano ‘sto libro), ci mette anche del suo. Ciliegina sulla torta, è fatto in modo tale che se ne avete voglia partite da pagina uno e arrivate a 446 – con alla fine 8 pagine di indice delle canzoni e degli artisti, i alternativa lo sfogliate e vi fermate sul nome che vi ispira in quel momento. Non male, sicuramente meglio di un ansiolitico e con lo stesso effetto.    La recensione vera insieme ad un’interessante intervista la troverete su Mangialibri e ovviamente vi avviserò, nel frattempo, una capatina in libreria io se fossi in voi la farei