CECI N’EST PAS UNE PIPE TANTOMENO UNA RECENSIONE

Ho un file aperto da settimane, quello che ho aperto per dire quello che penso del nuovo romanzo, lo stand alone, di de Giovanni L’antico amore.          Sono a tre fogli fitti fitti, troppi per un articolo sul blog. Ho letto delle recensioni splendide, in cui gli autori hanno colto ogni minima sfumatura.             Eppure ho trovato altro da dire, troppo.                                                                      E allora forse vale pena solo sottolineare quello che dico da anni.                   

Lo scrittore napoletano, forse per nascita o per inclinazione personale, ha solo usato il plot giallo come copertura, come esca. Strategia perfetta del resto, perché gli riesce alla perfezione.                                                                            Dietro ogni storia, a muovere le fila di tutto c’è sempre stato solo l’amore. A partire dai primi racconti per arrivare ai romanzi e alle storie di tifo o di cucina.                                                  Materno filiale fraterno, quello per la Città in ogni sua componente, luoghi Storia cibo paesaggi atmosfere, che si trasferisce agli esseri umani.                Fin dal racconto che è stato la spina dorsale de Le lacrime del pagliaccio – il romanzo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico diventando Il senso del dolore – passando per Il resto della settimana, al Metodo del coccodrillo, fra le indagini, dietro gli omicidi, nei rapporti umani, c’è amore.

Sapete che sono una delle fortunelle che leggono in anteprima i romanzi di de Giovanni, so quanto Maurizio tiene ai “fuori serie”, se li coccola per anni, li cresce li plasma, ci mette dentro tutto se stesso. Io l’ho adorato, sarebbe stato così per tutti? Ho avuto paura? Sì e sì, ho temuto che potesse essere criticato e invece…                                                                  

Ci ho messo qualche mese ma ho capito, nonostante i social, la politica l’ignoranza che impazza, la gente ha bisogno d’amore e se è raccontato con maestria, con grazia, intrecciando un passato lontano e uno più recente, che si sovrappongono con naturalezza, il risultato non può che essere…Amato.       

Un sentimento che va oltre, che sublima tutto il bene e tutto il male.         Un bene superiore all’egoismo degli amanti, che si arrotola su se stesso e si tace per l’altro, perché l’amato non abbia a soffrire, non debba cambiare, perché l’altro, quando ami così, è più importante.                                                

Questo racconta de Giovanni, amori così profondi da spingere chi li prova a disinteressarsi del suo stare per preservare l’amato.

È Oxana, la “badante” moldava che badante non è, la voce narrante del presente, una narratrice che non sa ma intuisce, è la ragione che accetta, che si arrende a qualcosa che sente essere troppo intimo e profondo per essere indagato e lascia che accada.                                                                                  Dà spazio a quello che non capisce, a dei pezzetti di carta che contengono, forse, parole che non si sono potute dire, raccogliendoli con rispetto.                            Accompagna, restando un passo indietro, il vecchio e noi nella memoria, in una vita che non ci appartiene ma possiamo riconoscere, camminando nel sole e nella pioggia che diventa un sipario, fino a svelarci l’unica verità a cui troppo spesso rinunciamo o non sappiamo accettare.

Se qualcosa può salvarci, è l’amore. E se c’è un uomo che lo sa raccontare, è Maurizio de Giovanni.

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UN PO’ DI VELENO E L’ANTIDOTO

Oggi un antidoto e un po’ di veleno, l’antidoto è splendido romanzo, L’attesa di Connelly. Sappiamo quanto è difficile mantenere un livello alto quando si scrivono romanzi seriali, ci sono esempi chiarissimi  di personaggi seriali che dopo anni non riescono più ad avere l’appeal, qualcuno si arrotola su se stesso arrivando ad essere quasi una caricatura. Penso alla Scarpetta, giusto per essere chiari, le cui “avventure” diventano con poche variazioni sempre la stessa, senza contare un particolare che definire irritante è poco, soprattutto perché spesso reiterato nel tempo: se per ribadre che sei di origine italiana, mi dici che hai scongelato un meraviglioso sugo alla marinara (credo a base di aglio e forse un calamaro), fatto con le tue mani sante, metti sulla pasta un mezzo kg di parmigiano, lo accompagni col pane all’aglio e lo innaffi con un corposo chianti, capisci bene che sei se non altro passibile di denuncia per oltraggio alla Costituzione. A parte lei comunque, credo che ogni lettore ne troverà almeno altri tre o quattro. Poi ci sono quegli autori graziati da Dio che li ha muniti di un talento che non gli fa sbagliare un colpo. Uno di questi è Connelly. In tanti, tantissimi, abbiamo amato Harry Bosch da subito, era il 1992 ed esordiva ne La memoria del topo, un personaggio fuori dalle righe, un ribelle non sempre capace di stare nei ranghi, sempre sul filo ma sempre in grado di aggiustare il tiro. Abbiamo palpitato per le sue vicende personali, fatto il tifo perché riuscisse a costruire un rapporto con Maddie – la figlia avuta dalla ex moglie – trepidato per i tanti cambiamenti di dipartimento e infine tremato quando è sato colpito dalla leucemia. In ogni romanzo, Connelly, è stato capace di calibrare la presenza e le assenze, il grado di protagonismo, ceduto al fratellastro o ai vari partner. In questo ultimo romanzo, L’attesa, la presenza del detective è ridotta all’osso o poco più, ma come nelle migliori bistecche, la carne intorno all’osso è la più saporita. Protagonista, anzi, protagoniste, sono Renée Ballard, e Maddie (che per inciso è entrata in polizia). Storia perfettamente equilibrata, più casi che si intrecciano e la presenza di Bosch, ormai in pensione, diventa il fulcro senza togliere una briciola. Un uomo ormai fragile ma che non molla di un centimetro quando si tratta di fare giustizia e di proteggere le persone che ama e/o con cui lavora.

SETTE VITE COME I LIBRI

Post influenza, ragazzi ma davvero quest’anno bastardissima, giustamente mi hanno chiamata per un piccolo intervento programmato, niente di che ma con obbligo/consiglio di stare il più ferma possibile. Ok la televisione ok qualche ora la dedichi al pc per eventuali emergenze di lavoro, ma se devi stare ferma con la gamba in scarico, cosa c’è di meglio che un buon libro?

Mi è andata di lusso, siamo onesti, il giorno prima del ricovero è uscito 7 vite come i libri, l’ultima fatica di Serena Venditto.

Posso dire che a me certe menti fanno “paura”? Lei, come la Perna come i Bruzzaldi – sia chiaro che sono tre nomi su 100 che valgono la spesa – hanno questa capacità di imbastire delle trame gialle che non hanno una sbavatura neanche a cercarla col lanternino e contemporaneamente (nell’ordine): svuotarmi la testa da qualsivoglia pensiero – inchiodarmi alle pagine, non c’è verso di mollarli – divertirmi e finirli senza mai deludermi. Se vi pare poco… Certo c’è qualche esagerazione in alcune scene, quello zicchettino di surreale che però riesce a sembrare perfettamente naturale, il tutto unito a un naturale (credo che dipenda dalla genetica territoriale) senso dell’umorismo e della tragedia. Lo so, sembra un parolone ma parliamo pur sempre di un giallo, c’è pur sempre il morto e quando qualcuno muore, per qualunque ragione, è sempre una tragedia. Ecco, raccontare le morti, quello che le ha provocate, a volte partendo da lontano, richiede talento e probabilmente, credo, un radicato bisogno di giustizia che Serena Venditto ha riversato sui 5 di via Atri, sì sì, anche Mycroft ha una spiccata idiosincrasia per le cose brutte. Ah, per inciso, anche senza il morto, le tragedie sono tali per chi le vive, anche quando si tratta di un amore che finisce, una bocciatura o la perdita del lavoro. Sono consapevole di non avervi raccontato niente della trama, non lo faccio mai e non si capisce perché dovrei iniziare adesso. Comunque, Malù diventa all’intrasatto una sostituta libraia e in un libro usato, perché quelli vende la libreria, trova delle pagine macchiate di sangue. E non è sangue vecchio, come arriva al proprietario del libro del sangue e del come e perché…Oh, ve lo dovete leggere.

PS – ho linkato il nome anche se la pagina porta a wikipedia in spagnolo, dio sa perché, ma se non la conosceste, lì trovate tutti i titoli, perché non so se vi è chiaro, ma ci tengo proprio che la conosciate.

LA FINESTRELLA DI VIA PIELLA e UN FUORI MENÙ

Bologna non è solo una vecchia signora dai fianchi larghi di Gucciniana memoria, è anche una città dove si vive, ognuno nel suo come suol dirsi. Ma a differenza di una Milano o di Roma, le cose si sanno, magari di sguincio ma si sanno. Filippo Venturi, oste e scrittore, la sua città la ama tanto e ce la racconta attraverso le disavventure del “povero” Zucchini – nomen omen – orgoglioso oste a sua volta, che si trova coinvolto, sempre suo malgrado, in fatti di sangue. Non vi racconto niente perché Venturi ha già ampiamente dimostrato di saper scrivere un giallo, ma mi piace sottolineare che ha trovato il modo di ricordare, integrandolo perfettamente, un fatto di cronaca di molti anni fa, di cui ho memoria ma non perché venga mai ricordato, che ha lasciato una ferita profonda alla città. Non so, trovo che l’aver voluto riportare alla memoria quel fatto brutto, il ricordare le vittime, sia un di più che dimostra la sensibilità dell’autore. Il tutto, attenzione, senza far mancare nemmeno un pizzico dell’ironia che gli è propria con la conseguente leggerezza e divertimento che caratterizzano tutti i suoi romanzi. Non mi spingo a dire che una volta letto un romanzo poi non puoi più fare a meno del personaggio, o che aspetti con ansia il prossimo, non riesco a far la leccaculo e Venturi mi perdonerà, però quando viene annunciata l’uscita di un nuovo libro, mi fa piacere e nel giro di poco lo leggo, fra l’altro a oggi, restando sempre soddisfatta e mai delusa. Su Repubblica, il nostro oste, quello che scrive, non Zucchini, (anche se…) tiene una rubrica in cui recensice i clienti e a me sta cosa, diverte un sacco. Non so se ho reso quel che volevo dire, ma se l’ho messo nei consigli di lettura, evidentemente prima o poi, ammesso che non lo abbiate già fatto, dovrete risolvervi a leggerlo.

E ADESSO QUALCOSA DI COMPLETAMENTE DIVERSO

Ci sono molti, moltissimi modi di rilassarsi, di ricercare il benessere e l’equilibrio, ognuno cerca il suo, io quando c’è di mezzo la musica, ogni genere di musica, tendo a pensare che funzioni, ecco perché fra i tanti consigli prettamente letterari, ci trovate questo, che non è un romanzo ma neanche un manuale. Lo chiamerei un accompagnamento nella ricerca, un insieme di suggerimenti per trovare quell’equilibrio sano di cui dicevo in apertura. Elena bresciani, cantante lirica e vocal coach, ci accompagna alla scoperta del canto curativo. Un insieme complesso di discipline della voce della musica e della filosofia che tente a procurare un benessere interiore totale. All’interno del libro, un QR Code, pemetterà l’ascolto delle improvvisazioni che hanno poi dato vita all’album Vibralchimie Vol.1, con 12 campane tibetane e di cristallo accompagnate dalla chitarra di Renato Caruso, che adatta lo strumento al suono delle campane. Provarci, immergendosi in qualcosa di nuovo, mi sembra un buon consiglio, anche se come ho titolato, è un po’ fuori menù.

CI SPOSTIAMO IN GIAPPONE un autore – due romanzi

L’articolo è di Martina Sartor che ringrazio di cuore, appassionata di giallo classico, lettrice più o meno compulsiva e decisamente esperta del genere (ma non solo). Benvenuta e speriamo a presto. Speriamo perché qui, nessuno ha obblighi tranne la scrivente coleichelegge. PS – Si richiede una standing ovation per la cura e la pazienza nel cercare tutti i caratteri speciali.

MATSUMOTO SEICHō

Quando un genere appassiona molto, il lettore si sente spinto ad esplorare nuove frontiere, a scoprire sempre nuovi autori che soddisfino le proprie esigenze. Da appassionata di gialli classici, dopo aver letto tantissimi mystery degli autori più noti, da Agatha Christie in poi, sto riscoprendo molti autori giapponesi che nei decenni passati hanno sfornato gialli ad enigma, psicologici, o comunque di stampo classico appunto, degni di stare accanto agli autori più noti: Keigo Higashino, Yokomizo Seishi, Shimada Sōji e, appunto, Matsumoto Seichō. Matsumoto (in giapponese si antepone sempre il cognome al nome) è stato considerato il Simenon giapponese per la sua prolificità, avendo scritto dagli anni ‘50 in poi oltre trecento romanzi. Quando in libreria ho visto che la collana Il Giallo Mondadori aveva pubblicato due suoi titoli – Agenzia A e La donna che scriveva haiku e altre storie – li ho presi praticamente a occhi chiusi.

AGENZIA A

Un giallo di stampo spiccatamente psicologico, ambientato negli anni immediatamente successivi al dopoguerra giapponese. La giovane Itane Teiko sposa, con un matrimonio combinato come era usanza a quel tempo, Uhara Ken’ichi, manager in un’agenzia pubblicitaria. Ma, subito dopo la luna di miele, durante un viaggio di lavoro, Kenichi scompare. Teiko quindi inizia a cercarlo, ripercorrendone le tracce nel nord del Giappone. La trama è molto radicata nella storia dell’epoca e prende spunto da quegli eventi, riflettendone malinconie, difficoltà e tristezze. Non è un caso che nel Giappone occupato dai soldati americani, alla fine della seconda guerra mondiale la miseria era tale che “nacquero” le cosidette pan pan ragazze che sopravvivevano prostituendosi coi soldati stranieri. Come spesso accade nei gialli giapponesi, l’atmosfera è molto noir. Più che indizi fisici, seguiamo le indagini attraverso i pensieri dei personaggi e le loro elucubrazioni psicologiche. Bellissimo, a questo proposito, il personaggio di Teiko, la giovane moglie: il romanzo è praticamente raccontato attraverso i suoi pensieri. Ci immerge profondamente nella sua psiche, seguiamo le sue ipotesi sulla vita di questo quasi sconosciuto marito. Aiutati dall’abilità di Matsumoto nel ricreare ambienti e scenari naturali, alla fine ci sembra di esser lì con lei, sulle rive del Mar del Giappone, in una sera di burrasca invernale, ripetendo i versi di Allan Poe: Nel suo sepolcro laggiù in riva al marenella sua tomba laggiù dove echeggia il mare!

LA DONNA CHE SCRIVEVA HAIKU E ALTRE STORIE

Anche in La donna che scriveva haiku e altre storie è intatta la grande capacità introspettiva dell’autore che porta in modo magistrale a capire dinamiche e motivazioni degli omicidi. Si tratta di sei racconti, ognuno con protagonista un personaggio particolare di cui scopriamo la vicenda, sia esso la vittima o l’assassino. Rispetto ai romanzi, data l’inevitabile brevità dei racconti, è un po più difficile memorizzare i nomi di luoghi e personaggi, soprattutto se i racconti vengono letti di seguito, come ho fatto io. Prendetelo come un suggerimento. Consigliatissimo leggere anche gli altri titoli (pochi rispetto alla produzione) di Matsumoto già pubblicati in italiano: Tokyo Express, La ragazza del Kyūshū e Come sabbia tra le dita.

IL SERPENTE MAIUSCOLO

“Non sono così addentro ai meccanismi editoriali da sapere come funzionano gli acquisti delle Case Editrici per quanto riguarda gli autori stranieri”.  Mi autocito non perché sia stata colta da un attacco fulminante di megalomania (quella ce l’ho sempre) ma perché il virgolettato, che avevo scritto parlando dei romanzi di Louise Penny, si adatta perfettamente anche a questo Serpente maiuscolo. In realtà non so se la scelta sia stata delle CE o dell’autore, fatto sta che Pierre Lemaitre, indiscusso a mio parere genio del noir, giocoliere provetto che usa le parole con rara maestria, crudele grottesco ironico e lucidamente perfido,ci dice che questo è il suo addio al genere. Niente più noir dunque ma ha deciso di celebrare questo addio con il primo noir che ha scritto nell’ormai lontanissimo 1985 o giù di lì. Ha scelto di pubblicarlo senza ammodernarlo, senza praticamente toccarlo. E porca la miseria è strepitoso. La sinossi l’avete letta più o meno dappertutto, io preferisco prlare delle vittime. Chi sarà vittima di Mathilde o di se stesso per ovvie ragioni non lo scrivo, potrebbe essere lei stessa o Henri, suo antico amante e mai sopito amore dai tempi in cui combattevano insieme nella resistenza o il vicino di casa o ancora il poliziotto che ha nella testa i serpenti. Eppure per quanto ormai vecchia (eh già, negli anni ’80 e ’90 i settanta non erano i nuovi cinquanta), decisamente sovrappeso e altrettanto decisamente avviata a un declino mentale, ha ancora abbastanza lucidità da far sì che gli altri non se ne accorgano, o quantomeno restino col dubbio. Soprattutto Henri che da sempre è rimasto oltre all’uomo che ama, e chi se ne frega del fatto che ha avuto un marito e una figlia, il suo comandante. Quello che la conosce meglio di tutti, che sa quanto può essere pericolosa. Ma cos’è a renderla così micidiale? Vi dico la mia, che vale quella di chiunque ovviamente, non è una persona cattiva, è amorale, attenzione non immorale, lei proprio non sa cosa sia il male. Mica ammazza la gente perché ha dei conti in sospeso, beh insomma, diciamo non ammazzava, ma perché è quello che sa fare, per cui la pagano, anche parecchio, e sa di essere la migliore. Il serpente maiuscolo appunto.   Per strano che possa sembrare, è anche una storia d’amore, magari non proprio quello delle favole d’accordo, ma state sulla fiducia, perché alla fine per quanto spiazzante disturbante e crudele, è sempre lui che fa girare il mondo, anche quando lo fa alla rovescia. Lasciatevi avvolgere dalle spire del serpente, vi ammazzerà lasciandovi vivi e se vi pare poco, ne riparliamo dopo che lo avrete finito.

È L’UMIDO CHE AMMAZZA

Non c’è pace per il povero Emilio Zucchini, oste bolognese fino al midollo, che si batte senza tregua per difendere la cucina felsinea dai luoghi comuni e dagli orrori che si sentono in giro. Ogni volta che qualcuno mangia dei tortellini alla panna per dire, c’è un cuoco emiliano che ha degli scioponi. Il tortellino muore nel brodo e basta, o quando si sentono chiedere degli Spaghetti alla bolognese (che non esistono), dai ho giocato un po’ coi titoli ma la verità è che Filippo Venturi, che i libri li ha scritti e si è inventato l’Emilio, è un ristoratore bolognese per davvero e Zucchini con quel tantinello di esasperazione permessa dalla fantasia, raccoglie nella sua persona tante verità. Premesso che lui, Zucchini, di suo i guai li eviterebbe come la peste, perché è un tipo tranquillo che anela solo a vedere la gente gustarsi i piatti che escono dalla sua cucina, andarsene soddisfatta (dopo aver obbedito ai suoi diktat culinari) e tornare nella sua trattoria, i sopracitati guai li attira come il miele attira le mosche. Invece si trova suo malgrado coinvolto in omicidi, furti e reati vari, in cui non ha alcuna colpa, ma dei quali il commissario Iodice gli attribuisce a priori e a prescindere un ruolo, possibilmente quello di indiziato principale.     In breve breve la trama racconta che Alice, la sua cameriera (purtroppo solo quello) è scomparsa, alcuni dei milordini (i giovanotti della Bologna bene) vengono uccisi piuttosto brualmente e la scomparsa sembra essere non solo coinvolta ma addirittura l’assassina. Tutto questo mentre La vecchia Bologna, come tutti i bar e i ristoranti, apre e chiude a seconda dei dpcm, eh sì, perché siamo nel 2020 e ancora si avanza a tentoni fra lockdown, orari prestabiliti mezz’ora prima di renderli esecutivi, tavoli che devono essere a distanza di sicurezza ma non si sa bene se a uno due o tre metri.                                                                     Con la trama direi che basta così. Trovo più interessate invece parlare dell’autore in toto, non credo abbia velleità di diventare uno che scrive best sellers ma sicuramente scrivere è una passione che coltiva con ottimo profitto, fra l’altro da anni tiene una rubrica su Repubblica, oltre ad aver pubblicato svariati romanzi. Il suo è un giallo intriso di ironia nella giusta misura, volendo restare in ambito gastronomico, la dose giusta come quella del caffè che deve assorbire un savoiardo per un tiramisù perfetto. Troppo rende il dolce acquoso, troppo poco e risulta secco. Ecco i gialli di Venturi sono così, più attento al linguaggio e alla misura che alla trama gialla, che comunque non è per niente male, anzi. Il contrasto fra Zucchini, che spesso nemmeno si rende conto di essere coinvolto in fatti criminali, e il commissario Iodice che regolarmente lo mette al centro delle indagini, o come principale sospetto o come complice, è il succo di ogni romanzo. Un commissario fra l’altro imbecille e presuntuoso come pochi, al punto da essere una figura fra il patetico e il ridicolo, che per sua fortuna a dei collaboratori che invece ragionano e alla Beretta preferiscono i neuroni.  Coraggiosamente Venturi, ha ambientato questo romanzo in piena pandemia, riuscendo a ridere e farci ridere, di quei mesi folli in cui eravamo tutti virologi e tutti spaventati da qualcosa di talmente grande da sembrare impossibile; “vittime” di misure emergenziali che viste da “lontano” oggi verrebbe da definire più che altro demenziali, non fosse altro che per il modo in cui hanno trasformato le città i rapporti umani le persone. Non era facile perché al di là della facile ironia, i morti ci sono stati eccome ma Venturi è stato bravo davvero a incastrare in quella dolorosa follia collettiva, un dolore personale capace di sconvolgere le persone, affrontando un tema decisamente purtroppo sempre attuale e con un piede nella cronaca vera . Se a una prima lettura può sembrare un gialletto leggero, fermandosi un attimo ci si accorge che non è affatto così e avendo letto i precedenti, si coglie la crescita autoriale dell’oste scrittore. Vale la pena quindi lasciarsi conquistare da Zucchini che oltretutto, diventa a sua insaputa (forse), uno spot vivente per la sua città. Impossibile leggerlo e non essere presi dalla voglia di andare a perdersi per almeno un fine settimana nella città delle due torri.

IL FRANCESE

So blue so noir

Stamattina o forse ieri, ho visto sul profilo di Massimo Cotto – se non sapete chi è, pentitevi – due foto, la targa affissa al muro ddella casa dove è nato Giorgio Faletti e pochi metri più in là un rudimentale pisello, madò, la versione gentildonna pensavo non l’avrei vista mai, transeat. Mi ha irritato vedere le due immagini accostate, poi ho letto il commento, un pensiero su come probabilmente Giorgio avrebbe riso grazie al suo sguardo sul mondo. Vero, inesorabilmente vero quel che ha scritto. Mi è tornato in mente quello sguardo, quegli occhi azzurri che sembravano gelidi e invece ridevano. Li sento eh i vostri “ma dove diavolo vuole andare a parare?” Arrivo a un altro paio di occhi, altrettanto apparentemente gelidi che invece quando poi li conosci vedi che ridono. Gli occhi di Massimo Carlotto. Che giro eh, eppure c’entra, perché dei libri come quelli che sccrive Carlotto, possono venire solo da uno sguardo capace di vedere, non guardare ma vedere e raccontare quello che la maggior parte di noi guarda e basta. La storia de Il francese, il macrò – un pappone sui generis -è quella di tante donne che non rientrano nei circuiti consueti della prostituzione. Non sono le donne di strada, vittime in genere di piccoli delinquenti, tentacoli insignificanti e intercambiabili di un polpo gigante, sia le donne che i pappa, né le escort di lusso che non rendono conto a nessuno. Il Macrò ha raccolto solitudini, desideri, obiettivi e li ha organizzati. Ognuna delle sue donne ha uno scopo per fare quello che fa e ha una vita che esula, la prostituzione è un frammento delle loro giornate. Toni Zanchetta, che di francese ha solo il soprannome, in realtà è un veneto nato in provincia, quella provincia tanto cara a Catlotto, dove vigono ancora dei codici, dove quello che conta è l’apparenza. Su questo si sviluppa un romanzo forse un po’ meno duro del solito, ma affilato come un bisturi, su come un inciampo, banale se vogliamo, un granello di sabbia si infila nel meccanismo perfetto inceppandolo inesorabilmente. La trama è ovviamente perfetta, perché sempre di un maestro parliamo, mala vera storia è quella di come si sgretola centimetro dopo centrimetro, mattone dopo mattone, il muro su cui Zanchetta ha dipinto la sua immagine e il suo benessere economico. Il mirino di Carlotto è implacabile, suoi romanzi sono delle foto in bianco e nero, dove ogni particolare viene esaltato e il quadro generale perde importanza per lasciarla ad ogni singolo. Ecco dove torna l’importanza dello sguardo, quella capacità di focalizzarsi su qualcosa. Non c’è ombra di giudizio, che sarebbe facile visto l’argomento, non una parola in più dello stretto necessario per farci entrare nelle miserie umane. Un noir perfetto, senza nemmeno un lumicino di speranza nella redenzione dell’umanità. Solo la fredda implacabile luce da sala operatoria che non lascia spazio ad ombre e la penna di un grande autore con uno sguardo distaccato che può avere solo chi ha imparato nel raccontare, a prendere le distanze dalle emozioni senza averle perse. Ci vogliono occhi di ghiaccio che sembrano non potersi addolcire. Ci vuole ironia per guardare il mondo piccolo dove sono spuntate le nostre radici, e raccontarlo da lontano dove sono arrivati i nostri rami. Bisogna avere orecchio diceva Jannacci, bisogna averlo tutto e Carlotto ce l’ha. E per chiudere il cerchio, chi ha avuto in sorte di poter vedere gli occhi di cui parlo, non potrà che darmi ragione, gli altri dovranno fidarsi e “acccontentarsi” della meraviglia di uan scrittura perfetta.

Cadaveri a sonagli

Lea e Nico sono due sbandati che si sono incontrati in un bar, qualche ora di sesso – sebbene a insaputa di lei lui abbia moglie e prole – e giorno dopo giorno il riconoscimento di chi non avendo niente a che fare con la moralità, li fa decidere che svaligiare ville è abbastanza redditizio e relativamente poco pericoloso. Fino a quella mattina (quella della quarta rapina), in cui Carla Maniero, una donna che nessuno ha mai amato, ma il cui patrimonio Gianni Romoli ha sposato, è inaspettatamente a casa. Mentre i due sono nella villa, totalmente ignari della sua presenza – è a letto da giorni per un’influenza e non l’hanno vista mentre facevano i sopralluoghi – Carla sente un cellulare squillare e scende dal letto avventurandosi al piano inferiore per vedere chi ci sia in casa. Preso alla sprovvista Nico non riesce a pensare niente di meglio di “ci dev’essere un malinteso” e poi colpirla non per ucciderla ma per renderla inoffensiva. In realtà la donna, pur sfuggendo al colpo, perde l’equilibrio e cade dalle scale e sembra morta, un osso le fuoriesce dalla spalla ed è in una posizione per cui è impossibile sia viva. Cinicamente Lea sale a frugare in cerca di oro soldi gioielli e intima al complice di togliere dal dito l’enorme smeraldo. Nico seppur sconvolto esegue, mentre stanno uscendo però, quell’informe fagotto riesce a sussurrare: “aiuto”.  Questo è solo l’inizio di una catena di eventi che coinvolge persone che si trovano dove non dovrebbero, altre dove non vorrebbero. Oppure come Dora Baròn, ispettore capo che prende servizio come comandante della stazione di polizia, proprio nel giorno in cui Santa Margherita delle Langhe si trasforma in un mezzo inferno. Per l’ennesima volta in queste settimane, devo ripete la stessa cosa, ci sono morti e qualcuno che li uccide, c’è un’indagine e dei poliziotti, ma non riesco a classificarlo come un giallo. Un noir piuttosto, dove Frascella evidenzia – se mi passate la citazione – la banalità del male. Uscendo dalla sua comfort zone di Barriera di Milano, il quartiere di Torino dove “opera” il suo detective Contrera, terra di mezzo dove ognuno fa i fatti suoi, leciti o illeciti che siano, dove si mescolano i disperati di mezzo mondo approdati per cercare una vita dignitosa e fagocitati dalla miseria dalla delinquenza, mostra tutta la sue qualità di noirista. Cambia anche la scrittura, si adegua a questo paesaggio di provincia dove intreccia le vite di gente comune, che probabilmente non si sarebbe mai incontrata, gente che si trova coinvolta a vario titolo in un episodio criminale che tira fuori da ognuno il peggio. O forse porta semplicemente in luce quella parte che giace nascosta in tutti noi, quella che si adegua alla civile convivenza, ma è pronta a prendere il sopravvento e approfittare delle circostanze per trarre un possibile vantaggio a spese degli altri. Epperò se posso, e non vedo chi me lo impedirà, vi dico che a me questa prova ha convinto molto più delle altre, che pure mi sono piaciute assai.

BCM17 – di libri autori e incontri – Tanto giallo e tanto noir – parte 1

Va da sè che l’unico requisito indispensabile per godersi a pieno BookCity, sarebbe l’ubiquità, mi dicono però non essere qualità nelle disponibilità di alcuno. Io per una volta, a malincuore ho escluso le decine di eventi a carattere generale – e credetemi sulla parola c’erano davvero eventi per tutti i gusti, presentazioni incontri tavole rotonde conferenze e chi più ne ha più ne metta – per concentrarmi sul genere che mi appartiene forse più degli altri, o perlomeno quello in cui la competenza non mi manca (e se vi sembro presuntuosa non è un problema mio). Quindi mi sono concentrata sul Giallo e il noir. A onor del vero qualche dubbio sull’ubiquità mi è venuto, o perlomeno che qualche autore/relatore, abbia dei superpoteri, ma questa è un’altra storia. Ho selezionato pochi incontri, quasi tutti tenutisi a Palazzo Morando, ho iniziato con la presentazione di Le sorelle Sciacallo della Vallorani, introdotta e affiancata da Elena Mearini e Carlo Lucarelli interessante incontro in cui è tornata prepotente Tecla Dozio (che evidentemente è ancora ben salda al suo posto di Signora del giallo, nel cuore di tutti). del libro ve ne parlerò ovviamente quando lo leggerò (e non fate dello spirito sui tempi). Però se lo consiglia Lucarelli, fossi in voi un pensierino ce lo farei. A seguire la presentazione di Le notti nere di Praga,(Davide Mosca – Mondadori) un divertente “giallo” che vede protagonista nientemeno che Kafka. La relatrice Cristina Aicardi, anima di MilanoNera, lo ha consigliato, e io, sempre in attesa di leggerlo, lo consiglio a voi. Per i #deGiovanners più distratti, più distratti, sulla pagina facebook di questo blog, trovate tre minuti di Souvenir, sì cari, un regalo che Maurizio ha fatto ai presenti al Parenti, dove in realtà si è parlato del commissario Ricciardi a fumetti, direi che Bonelli Editore ha fatto un gran lavoro. Non perdetevi il prossimo articolo, vi racconterò di Malvaldi Manzini Robecchi e di cosa hanno raccontato