L’uomo di casa – Questo sconosciuto

udcDopo l’incursione nel magico mondo delle fiction, torniamo a parlare di libri, anzi di un libro, quello di Romano De Marco. Già ben introdotto nel mondo noir grazie ai romanzi precedenti, con un nome già ben conosciuto, De Marco ha fatto il botto con il suo ultimo lavoro, no non lo dico io, lo dice il numero di recensioni commenti e lettori, tutti positivi tutti entusiasti. E ne abbiamo, sì ovvio che mi ci metto anch’io, ne abbiamo ben d’onde. Nel panorama italiano contiamo un corposo numero di noiristi, quel genere – lo dico per i pochi che potessero non saperlo – che racconta, più o meno bene, più o meno coinvolgendo, la società e i suoi lati oscuri (abusatissima definizione ma non ne trovo di migliori), ma pochi giallisti puri. Il giallo è quel romanzo o racconto in cui c’è un crimine e un investigatore, in cui il lettore si immerge negli indizi che l’autore dissemina per arrivare alla soluzione del mistero. De Marco ha scritto un giallo (smettiamo di fare i fighi e usare la parola thriller che son sinonimi, ci piaccia o no) un giallo dicevo di quelli che ti tengono in tensione dalla prima all’ultima pagina, di quelli che quando li finisci ti lasciano soddisfatto come dopo un buon pranzo o … Vabbè avete capito. Un uomo viene trovato ucciso nella sua auto, i pantaloni calati e la gola squarciata. Il luogo è notoriamente frequentato da prostitute e la logica conclusione è che sia stato un incontro mercenario finito male. E invece no, perchè Alan era un padre di famiglia rispettabile, uno regolare, che non aveva mai dato modo di sospettare che dietro la facciata ci fosse altro che l’uomo che tutti conoscevano, gran lavoratore marito e padre. Sandra, la moglie non si da pace e quando scopre fra le cose di Alan una chiave non riconducibile a serrature note, la rassegnazione a non sapere chi fosse suo marito perde ogni significato e la tensione si rialza a livelli altissimi. Insomma un thriller come non si leggeva da tempo. Accurato nelle descrizioni dei luoghi, in un’America wasp e conservatrice, personaggi puliti e delineati in un controluce che perfeziona i contorni, un romanzo dove due parallele si incontrano per dare al lettore qualche ora di puro piacere.

Si perdona poco, ma se sei de Giovanni non ti perdonano neanche quello – I Bastardi in tv

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Se siete qui più o meno siete gente che legge e sapete di cosa parlo, se invece siete arrivati per sbaglio, benvenuti e buona lettura.

Dunque dal 2012 nelle librerie d’Italia e non solo, si aggira Il metodo del coccodrillo, che ovviamente essendo un giallo molto noir ha come protagonista/antagonista, un ispettore. Un altro? Sì, ma siccome ce lo ha portato Maurizio de Giovanni a noi (ovviamente autoironico plurale majestais) ci piace. Un ispettore che da subito aveva le carte in regola per diventare uno dei Bastardi, no, non li aveva già pensati, ma se sei uno scrittore di talento, e lo dico a ragion veduta, vedi l’oceano nell’increspatura di una pozzanghera e da una storia ne tiri fuori molte. de Giovanni si è inventato I Bastardi di Pizzofalcone. Pizzofalcone è una zona che ha sotto la sua giurisdizione strade di lusso circoli nautici e il Pallonetto di Santa Lucia (tutti addosso uno all’altro, perché Napoli è fatta così il commissariato è in odore di chiusura. Poliziotti corrotti e delinquenti che si rivendevano la droga sequestrata e la bomba è innescata e pronta ad esplodere. Quindi uno da Il metodo del coccodrillo uno da lì, quattro poliziotti vanno ad aggiungersi ai due superstiti di quel commissariato, per presidiare il territorio fino all’inevitabile chiusura. Inevitabile? Non se la squadra che si forma è fatta da poliziotti con l’anima, gente che non sta a guardare il proprio mal di testa, che mette da parte il proprio sè per risolvere i casi. Poche volte ho visto discutere così animatamente su una serie tv, certo Rocco Schiavone ha scomodato anche dei politici, ma lui si è fatto le canne su RAI 2, qui si è scatenato il finimondo senza neanche un po’ di trasgressione. Ora, lascerei da parte gli improvvisati critici televisivi gente che non distingue tra scenografia e sceneggiatura, che non ha idea dell’esistenza della segreteria di edizione, per non parlare di quanti hanno avuto occasione di ascoltare (magari per sbaglio) brani di conversazioni dell’autore e hanno fatto dei film sul film. Vi dirò invece cosa ne penso io alla faccia dello stesso de Giovanni (il quale sostiene che io non sia affidabile per questioni affettive, ma mente non sapendo di mentire). Ho acceso il televisore con lo stesso timore che mi prende quando mi arriva il file di ogni nuovo romanzo. Il timore che non mi piaccia, che ci siano critiche da fare, (vabbè che le mie critiche siano indispensabili è una cosa di cui sono convinta io ma noi megalomani siamo così) invece anche stavolta il de Giovanni ha fatto centro. Qualche critica c’è, tipo non crederò mai che Gassmann e la Crescentini non siano in grado di parlare senza inflessioni, piccoli particolari che mandano ai matti le signorine pignoletti ma non la gente normale e sicuramente non si possono attribuire a lui. La cosa buffa è che a cose del tutto normali nella realizzazione di un film o una fiction, per esempio chiudere una strada durante le riprese, vengono attribuiti significati sotterranei che nemmeno i simboli massonici. Facciamola breve, a poco serve che siano aumentate le vendite di libri, poco importa se a fronte di un canone inevadibile ci hanno offerto un prodotto molto buono (ci starebbe anche un ottimo ma aspetto di vedere tutte le puntate) e godibile, con quel tanto che ti fa pensare se ne hai voglia ma non te lo impone. Se sei Maurizio de Giovanni le critiche te le devi beccare comunque, possibilmente feroci e immotivate, magari anche sul fatto che Napoli è di una bellezza sconvolgente e nella fiction a parte il morto ammazzato, non si vedono le stese gli agguati di camorra e le vele di Scampia, ma non qui. Qui i Bastardi di Pizzofalcone hanno soddisfatto anche nella riduzione televisiva (e badate che non è un termine usato a caso).  Come dite? Non sono obiettiva e scrivo così perché sono una groupie? Nonnonno, provate a leggerli e poi guardateli o fate il contrario, vi aspetto per dirmi se ho ragione o no.

Non di solo Pane

15178166_10209939685162583_5042814304594663262_nCosa conosce un panettiere? Conosce la notte, è nel silenzio che fa il suo lavoro, mentre la maggior parte della gente dorme sogna o fa l’amore, il panettiere è lì, davanti al forno in cui cuoce la vita. C’è un modo di dire per indicare una donna gravida, si dice che “ha una pagnotta nel forno”, e non è un caso, il pane è da sempre metafora di tutto,  “buono come il pane” “non è pane per i tuoi denti” “rendere pan per focaccia”. Il pane è vita, e se fatto bene il pane è vivo, letteralmente, c’è chi cura la pasta madre come si cura un figlio, un pezzo di Pasta madre passa di generazione in generazione e fa un pane buono che sazia e non gonfia, un pane che nutre, un pane che diventa simbolo di amore. Gesù Cristo spezzò il pane e lo diede ai suoi discepoli. E per il pane si può morire. Pasqualino fa il pane da tutta una vita, è il Principe dell’alba lui, ha il compito che fu di suo padre e prima di suo nonno, quando la luce non ha ancora vinto sul buio della notte, quando il giorno si intuisce soltanto, lui spezza il lievito che darà al suo pane quel profumo che sveglierà la città, e rimette al sicuro quello che servirà per il giorno dopo il mese dopo l’anno dopo, quello che suo nipote Totò userà quando sarà lui il Principe dell’alba. Pasqualino non avrà il tempo di insegnare a suo nipote cosa sia il pane, quanta vita ci sia nel pane, Totò imparerà da solo che per il pane si può morire.

Ve lo dico ogni volta, se comprate e leggete i libri di deGio per il giallo lo trovate, ma non è quello l’importante. I romanzi di Maurizio sono altro, vanno oltre. Ogni singolo Bastardo è una poesia a se stante e parte di un canto corale, un balletto in cui non ci sono etoile perché ognuno brilla di luce propria e insieme scaldano il cuore. Ogni volta che inizio un nuovo libro tremo. Ho paura che possa esserci una scivolata, che dopo tante Storie possa arrivare quella che mi lascerà tiepida, lo apro trattenendo il fiato per le prime righe, come le zie che fuori dalla sala parto, quando gli portano il nipote senza farsi vedere gli contano le dita per assicurarsi che sia sano e bello. Pane è un bambino bellissimo, gente che ne sa, dice che è il più bello, io francamente non lo so. So che è pieno di profumo, di luce e di angoli bui come la notte più profonda, è un viaggio nel cuore di ogni Bastardo e di chi con loro va. A casa del sospettato, sulla brandina del commissariato di Pizzofalcone, a casa della vittima, ma soprattutto dentro i loro cuori e pensieri, nella notte, mentre il pane lievita e cuoce e di giorno, quando si fanno i conti con la vita. Pane ti scaraventa senza pietà nella vita di chi ha perso, di chi si finge malato per trovare riparo e cibo, almeno per qualche giorno, di chi invece dello smartphone pensa a come comprare il latte per il figlio neonato che piange dalla fame, di chi va al supermercato per rubare un pezzo di formaggio vergognandosi perché lavora ma non basta. Non di solo pane si vive ma anche di buona letteratura.

Torna a Milano il Giallone, in sella Radeschi e Roversi – La confraternita delle ossa

paoloroversi_laconfraternitadelleossa_copertinaGli appassionati di gialli e in particolare quelli di autori italiani conoscono bene il giornalista investigatore Enrico Radeschi, sì quello che gira con la vespa gialla, a cui gli hacker di Anonymus fanno una pippa, quello che è nato nella bassa come il suo creatore, Paolo Roversi. Mancava da un po’ ma da ieri è in tutte le librerie con un nuovo appassionante giallo. La confraternita delle ossa appunto. Avete presente San Bernardino a Milano? La chiesa in pieno centro che raccoglie migliaia di ossa? Ecco lì aveva sede una confraternita e da lì si è scatenata la fantasia di Roversi che da un morto illustre, ucciso sotto la Scrofa semilanuta – che adorna Palazzo della regione, in via dei Mercanti – si inventa un giallone coi controfiocchi. Il morto ha tracciato col sangue un simbolo e fortuna (nostra) vuole che un giovane aspirante giornalista, appena arrivato nella metropoli dalla bassa padana per fare il giornalista, si trovi a notarlo prima di essere allontanato dalla polizia. Siamo nel 2002, non ci sono cellulari con cui fissare l’immagine, Radeschi è un pischello che vuole a tutti i costi emergere e la polizia non vuole che il particolare sia svelato. Bravi, Roversi ci racconta amalgamandola perfettamente all’indagine, che si rivelerà essere ben più complessa di quanto appaia, di come Radeschi sia diventato quel personaggio che ben conosciamo. Per quanto mi riguarda trovo che ad un certo punto, quando un personaggio è saldamente radicato nel cuore dei lettori, sia quasi doveroso per un autore raccontarci le origini. Questo è quanto fa egregiamente Roversi, ci racconta di come un ragazzo appena laureato, diventi un collaboratore della polizia, un battitore libero indispensabile. Col Nokia che gli tronca metà delle conversazioni (e sì, le batterie erano un bel problema) un hacker esperto nonché un milanese non ancora imbruttito, da dove arrivi la Vespa – che tutti conosciamo come il Giallone – di come sia arrivato Buk, il fedele labrador. Con un omaggio a Dan Brown, e un occhio a Scerbanenco, vi accingete a leggere, perché so che lo leggerete, un giallo davvero intrigante, personaggi che avrebbero preferito restare nell’ombra, una confraternita che ha visto fra i suoi antichi adepti perfino san Carlo Borromeo, un’assassina senza scrupoli che si comporta come una mantide. Da non perdere.

A questo link potete acquistarlo, trovare le recensioni di chi ha avuto la fortuna di leggerlo in anteprima, e una chicca da non perdere Il delitto della stanza chiusa –  

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Ovviamente su Facebook trovate tutte le date per i firmacopie e le presentazioni

C’era una volta un cazzone, all’anagrafe Rocco Schiavone 7/7/2007

13627253_600722983440884_6999286036847110719_nPremessa: chi come me ha amato Patricia Cornwelll, ad ogni nuova uscita di un autore amato è diviso fra la smania di avere subito il libro fra le mani, e l’orrenda consapevolezza che 99 su 100, avrà l’ennesima delusione, vada tranquillo, la delusione qui non c’è.

Siamo arrivati al dunque, a mio (falsa che non sono altro) modesto parere, il più bello della serie di Rocco Schiavone, il vicequestore romano uscito dalla penna (o dal cuore?) di Antonio Manzini. Ci ha accalappiati con un personaggio antipatico scorbutico politicamente scorretto, stropicciato dentro e fuori,un cialtrone che si fa le canne in questura, che maltratta sadicamente i sottoposti (ma solo quelli cretini, gli altri li maltratta senza sadismo). Uno che ne ha combinate tante che dai e dai, dal commissariato di Roma EUR l’hanno spedito ad Aosta. Indomito nel suo loden e con le sue Clark – usa solo quelle – ha affrontato tranquillo i casi che sono capitati facendosi apprezzare come investigatore e facendoci anche ridere con tante piccole cose, Dalle scarpe (che vi lascio immaginare come possano reagire alla neve della Val d’Aosta, a D’Intino e Deruta, al cui confronto Catarella è un genio assoluto, all’ormai mitica scala Schiavone delle rotture di coglioni. Ma, dai lo sapevate che c’era il ma, c’è un dolore che lo accompagna, uno di quelli che diventano parte di te, che all’esterno dopo un po’ non si vedono più ma dentro sono attaccati ad ogni tuo organo, a condizionare ogni tuo pensiero e ogni tuo gesto. Ho intitolato C’era una volta, perché questo è il romanzo che i Manzini addicted stavano aspettando, ci viene svelato come è morta Marina, quella donna che ha saputo avrebbe sposato pochi minuti dopo averla vista, che lo ha accompagnato anche da morta, quasi come un ologramma che lo aspetta al ritorno dal lavoro, con cui fa conversazione, consapevole di parlare da solo, ma del tutto indifferente. Ovviamente non faccio spoiler, ma vi assicuro che se prima amavate Rocco, da qui in poi proverete un sentimento diverso, più profondo, direi addirittura compassione (nel significato letterale del termine). La cosa interessante dal punto di vista squisitamente letterario, è il motivo per cui il vicequestore è costretto a raccontare tutto, un escamotage che lascerà i più con il fiato sospeso in attesa del prossimo romanzo. E a buona ragione credo di poter dire che Manzini è entrato definitivamente nella rosa dei grandi autori, quelli che non scrivono necessariamente dei capolavori, ma che entrano prima nelle librerie e poi nel cuore dei lettori, piazzandosi in una nicchia da cui difficilmente usciranno.

Kamasutra? Sì grazie, ma che sia Kevin – Ovvero Berselli it’s back

Cover berselli stampa:Layout 1Un diciassettenne che cita filosofi gruppi musicali storici, che usa parole note solo ai vocabolari e non ha mai fatto sesso, come direbbero a Bergamo, a far sura, gli hanno messo l’apparecchio ai denti – bracket maledizione si chiama bracket – e sua madre gli ha confidato che suo padre naturale è un macho sudamericano e non quello che lui ha sempre chiamato papà, su cui sorvolo per non togliervi il divertimento. Dice ma guarda che io Bers lo seguo su FB, è un pirla dedito al cazzeggio più assoluto, forse anche un maniaco sessuale, dico guarda, da retta, leggilo, ma leggiti tutto. Perché come ebbe a dire lui stesso, scrive cose che nemmeno sa di avere scritto. No non nel senso che soffre di sdoppiamento della personalità (eventualità che non mi sento di escludere comunque) ma nel senso che in quello che può sembrare un librettino divertente sull’adolescenza, ci ha messo dentro tanta di quella roba da paura. Il disagio adolescenziale che poi porta al bullismo, il difficile rapporto dei genitori con se stessi, fra di loro, figuriamoci con i figli. Una scuola che vabbè stendiamo il pietoso velo ma sarebbe meglio un sudario, il sesso la droga e quanto altro vi può venire in mente. Il vero dunque però è come lo fa, con una lievità e una grazia che pochi hanno, sfoggiando una cultura che ti fa venir voglia di sapere le cose, e senza smettere mai di farti ridere o sorridere, sempre al punto giusto. Come un orafo che cesella gioielli o bigiotteria di lusso, senza una sbavatura, neanche minima. Non dimenticatevi però che è lo stesso uomo che ha scritto Non fare la cosa giusta, che in quanto a noir profondità e cattiveria si beve autori internazionali come fossero degli shortini. Insomma, dura poche ore e va bene, però io se fossi in voi, Kamasutra Kevin non me lo perderei.

Serenata senza nome – notturno per il commissario ricciardi – grazie Maurizio de Giovanni

13256010_10208352328199651_3593019605125302631_nNormalmente i libri di deGio mezzo scrittore (vedi profilo FB) e io aggiungo mezzo poeta, li divoro in meno di 24 ore, lo faccio perché ho paura. In che senso vi chiederete, paura che possa non aver centrato il bersaglio, che per una congiunzione astrale – credo a questo punto impossibile – possa non piacermi. Quindi niente dicevo, ogni nuovo libro lo divoro con il cuore in gola e poi quando mi rendo conto che non si sa come, ogni libro è più bello del precedente, mi rilasso e dopo qualche giorno lo rileggo una o due volte. Una lettura sola non è sufficiente per cogliere tutto quello che c’è dentro. E anche stavolta c’è tanto di tutto dentro, c’è amore, come di consueto, quello di Enrica e Luigi Alfredo che ci tengono incollati a una finestra da anni, c’è l’amore del duca Marangolo per Bianca, pulito come può esserlo un amore senza speranza e di antica data, di un vecchio malato per una giovane contessa sfortunata. E quello triste e rancoroso di Livia, quello opportunista e interessato di Manfred. C’è l’amore di un uomo che è andato a cercare fortuna, trovandola e poi perdendola, per amore della sua Cettina. E a chiudere la lista parziale c’è un amore trasgressivo, di quelli che non sono accettati ancora adesso, figuriamoci ai tempi del Capoccione. C’è la perdita, delle illusioni dei sogni delle speranze, la perdita dell’amore della dignità dell’onore. C’è l’ombra di quello che verrà, o almeno io ce l’ho vista ma ne parleremo alla prossima. C’è il riscatto, pubblico e privato di chi è accusato, di chi vive all’ombra del sospetto. E c’è la speranza, quella lama di luce che ti fa vedere anche nel buio pesto, che ti da la forza di scendere dal letto per quanto pesante e brutto sia quello che ti aspetta. C’è la forza, di uomini e donne capaci di cose tanto impensabili quanto logiche. Della trama non sto a raccontarvi, del giallo in sé per sé nulla da dire, si arriva ad intuire il colpevole ma poi quando arriva la soluzione, ti accorgi che avevi capito metà di quanto c’era da capire. Insomma mezzo scrittore forse, ma de Giovanni è un soprattutto un lettore, legge l’animo umano con la chiarezza di un misto fra uno psichiatra e un prete (uno di quelli veri). Quello che scrive ce l’ha dentro e ce lo regala, conosce, tanto per fare una citazione – che non c’entra o forse sì – miseria e nobiltà che albergano nell’uomo, conosce  capisce e non condanna né giudica de Giovanni, racconta con la delicatezza e la precisione di un chirurgo. Sopra ogni altro, lo fa notare Severino Cesari, padre con Paolo Repetti  di Stile Libero (la collana di Einaudi che pubblica Ricciardi e i Bastardi) a cui questo libro è dedicato, c’è un personaggio che a mio modestissimo parere è il vero alter ego di Maurizio, il brigadiere Maione, che è lui ed è suo padre, quel padre che tutti vorrebbero avere avuto e se si potesse avere sempre.

Va da se che questa non è una recensione, è un immenso grazie ad un autore che va oltre il raccontare storie, va oltre lo scrivere, ad un uomo che nonostante sia più impegnato della Merkel, trova ancora e sempre il tempo di esserci per quelli che, e non potrebbe essere altrimenti, gli vogliono bene.

La resistenza del maschio (ossia sulla Buccia che ti fa scivolare)

I libri della Bucciarelli devo farli decantare prima di poterne scrivere; e in realtà sarà un’articolo molto breve perché l’alternativa sarebbe un trattato congiunto di architettura psicologia filologia e non so quante altre discipline. Non sono certa di chi fra il Maschio e le femmine che ne contornano l’egoismo o il legittimo desiderio di vivere come preferisce, ne esca peggio. Forse nessuno perché alla fine l’autrice riesce a mettere in un caleidoscopio tutti i meccanismi che poco più poco meno compongono l’universo coppia, qualunque tipo di coppia, sposi amanti liberi frequentatori, innamorati cronici e innamorati asettici. E come in un caleidoscopio all’inizio le immagini si confondono in un bellissimo disegno senza che tu riesca a distinguerle, ma poi giro dopo giro del cilindro si definiscono e le apprezzi una per una oltre che nell’insieme.

Una resistenza strenua e decisa quella di Emme, a scapito della sua stessa felicità apparentemente e sempre apparentemente anche a quella delle donne; E poi c’è l’inconsapevolezza delle protagoniste femminili, contrapposta alla nostra (dei lettori) assoluta consapevolezza e compassione. E quando lo finisci la scoperta che se cambi appena appena prospettiva, cambia tutto ma proprio tutto. Per quanto riguarda la scrittura è quella che ben conosce chi ha già letto qualcosa di suo, essenziale pulita e impeccabile. Non una parola di troppo e non una di meno del necessario, ricercata senza essere leziosa, raffinata senza essere snob. Un libro facile? No. Un libro bello? Molto

Edito da NNEditore, Casa Editrice indipendente con la vista molto molto lunga.

E’ così che si uccide (la voglia di leggere)

Porca vacca, due delusioni una di seguito all’altra ti fanno davvero girare le scatole, la prima il libro che ha vinto uno dei più prestigiosi e ambiti (sì ciao) premi letterari di cui però ho ampiamente detto su Anobii, la seconda più cocente per il battage che ha preceduto l’uscita del libro. E’ così che si uccide di Mirko Zilahy. Venduto in mezzo mondo pubblicato da una signora Casa Editrice, mi aspettavo una bomba, e l’ho avuta; a partire dalle prime pagine in cui un professore universitario canna (sbaglia per chi non ama il gergo dialettale) clamorosamente un congiuntivo – e ancora a ripensarci mi parte un brivido dal vertice del cranio che arriva fino al coccige – alla carta d’identità di una signora il cui stato civile è celibe. Taccio sulle procedure di polizia, che poi dai, cosa ti costa chiedere a qualcuno, sorvolo sul fatto che ad un certo punto, per arrestare un banalissimo assassino, in genere il serial killer ha caratteristiche un po’ diverse da quelle del nostro ma transeat, viene richiesto l’intervento dei NOCS (squadra speciale della polizia addestrata all’antiterrorismo e alle azioni di assalto in cui siano presenti ostaggi), ignoro o almeno ci provo, il fatto che un PM partecipi attivamente alle indagini, tralasciando di segnalare un fatto di una gravità assoluta che inficerebbe la confessione anche davanti al tribunale di Topolinia. E però santa pace, mi fai un trattato storico logistico che neanche gli Angela (Piero e Alberto) sull’architettura pre o post industriale (non ne ho idea e non vorrei scrivere cavolate, facendomi anche l’analisi comparativa fra i monumenti del passato e gli emblemi della modernità (parliamo del gazometro e di altri siti particolari), e anche se mi annoio un po’ ci posso passare sopra, ma poi mi mandi un commissario (che fra l’altro ha riconsegnato il tesserino) e un medico legale a manomettere di nascosto il cadavere, e la scientifica non si accorge di nulla, bè permettimi che un po’ mi girano. La mia anima animalista poi non ci ha visto più davanti alle nutrie carnivore. Non vado oltre con la demolizione anche se il materiale non mancherebbe, mi limito a dire che mi auguro, ma soprattutto auguro al giovane autore, di trovare sulla sua strada persone che non cavalchino l’onda, che abbiano il coraggio di fare un sano editing e una sana correzione delle bozze. Spero davvero che con questa brutta caduta, indipendentemente dai risultati di vendita lo è, non danneggi un autore che con una mano un po’ più ferma a guidarlo, e accumulando un po’ di esperienza, potrebbe scrivere delle cose davvero buone. Magari non gialli che richiedono oltre ad una buona storia, una solida conoscenza, o almeno degli ottimi consulenti delle procedure poliziesche. Ah, un ultima cosa, so perfettamente che gazometro è utilizzato normalmente, ma dizionario alla mano, in italiano è meglio gasometro, che a ingarbugliare i fatti con le parole ci pensa già la politica.

Voglia di leggere? Serviti

Un romanzo cattivo, non perché succedano cose strabilianti, poco più poco meno è 584-large_defaultuna realtà che conosciamo quella che ci racconta Bastasi, il punto è come ce lo racconta.  Spietato è la parola che meglio descrive a mio parere questo romanzo. Sottolineo questo, perché parliamo di un autore versatile, capace di provare e trasmettere empatia e lo ha dimostrato nei suoi precedenti lavori, la scelta stavolta è stata di tenersi al di fuori. La storia di un uomo qualunque, Massimo Gerosa, che vuole fortissimamente vuole diventare “qualcuno”, e ce la fa; ci riesce nel modo in cui ci riescono tutti, calpestando tutto e tutti, senza guardare in faccia nessuno. Ma come raccontano i proverbi c’è sempre qualcuno che al mattino si sveglia prima di te e qualcuno si è svegliato anche prima di Gerosa, e userà lui come lui ha fatto con gli altri. Una storia di degrado morale che si estende dal privato di Massimo al pubblico, con la descrizione precisa di come la politica, tutta senza esclusioni, sia in grado di manipolare la gente, soprattutto quella animata da principi basici, mors tua vita mea per intenderci. A detta dell’autore – ma non cercatela in rete questa cosa perché viene da una conversazione – non c’è una morale predefinita o intenzionale, io ce l’ho trovata comunque, ognuno è artefice del proprio destino, e nessuno è tanto potente da sfuggire al destino che le stelle hanno disegnato per lui. Quindi se avete voglia di una storia con cui sporcarvi le mani, in cui potete trovare tutti i responsabili che volete, colpevoli per ogni schifezza che vediamo ogni giorno; se se cercate un romanzo scritto bene, nel senso letterale, e soprattutto se vi piacciono i bei libri, Era la Milano da bere è quello che fa per voi.