AMOR CHE NULLO AMATO…

Quale posto migliore dell’orto botanico per un incontro che è meglio rimanga segreto? Lei adulta lui un ragazzino, ma si guardano con un amore infinito, Questo è quello che vede un giardiniere dell’Orto, che in realtà li tiene d’occhio per evitare che come spesso capita, si infrattino rovinandogli qualche pianta. Lei una meraviglia dai lunghi capelli scuri, lui un biondino delicato a cui manca poco per diventare maggiorenne. Ma quell’incontro non è un semplice rendez vous, è il preludio di una scomparsa che da la stura a una marea di ipotesi pettegolezzi chiacchiere e pruriti, perché Viviana è un’insegnante – sui quaranta – nell’istituto privato che frequenta Davide il quale peraltro, lascia un messaggio alla famiglia, due semplici parole: non cercatemi. Ma come si può immaginare la caccia, soprattutto quella mediatica, parte pressoché immediatamente. Temperante Cagnaccio lancia le sue donne, Smilza in testa e le Cairati al seguito, di nuovo in giro per l’Italia, alla ricerca della dark lady e del ragazzino. E ne scoprono di cose, segreti sepolti che inevitabilmente prima o poi saltano fuori, non senza che la sapiente arte della Teruzzi li fonda con i segreti di Iole (anche se ormai tanto segreti non sono più) e con la vita privata (le piacerebbe) di Libera. Vittoria in questo capitolo praticamente non si vede, ma fa la sua parte per incasinare la vita della nostra ex libraia e farla preoccupare, tanto più che dovrebbe coinvolgere Gabriele che sul lavoro di grane ne ha di suo. C’è meno leggerezza forse che nei precedenti, ma d’altra parte il tema è delicato. Buffa questa cosa, ho scritto lo stesso parlando del romanzo di Manzini, ma evidentemente le vicende del mondo quali che siano, incidono sugli umori anche di chi racconta. Ciononostante le incursioni nel giallo delle miss Marple, riescono ad essere appassionanti soprattutto perché le loro vicende personali si arricchiscono di libro in libro e grazie alla delicata ma decisa e sapiente scrittura, la voglia di sapere dei lettori, si attizza. Che poi diciamolo, il lago è lì, il casello anche, Rosa datti da fare.

BELLO BELLO BELLO

  AIUTATEMI A DIRE BELLO

LA CASA SUL PROMONTORIO

Avevo degli arretrati e non è un momento facile, uno di quelli in cui non riesci a concentrarti troppo quindi scegli titoli leggeri oppure qualcuno che sai ti piacerà e ti porterà a finire il libro. Finiti gli “obbligati” – che per fortuna da qualche tempo sono obblighi piacevoli – ieri ho deciso che era arrivato il momento di De Marco. La sera sono crollata (capita di essere stanchi) a 40 pagine dalla fine, ma stamattina alle 6, insieme alla moka ho acceso il reader, andava finito senza se e senza ma. La trama è perfetta, non c’è un solo punto che sia meno che credibile. Mattia Lanza uno scrittore di quelli che vendono sul serio, viene trovato vicino ai corpi di moglie e figli uccisi, quasi catatonico e sporco del sangue dei suoi cari. Eppure non è stato lui, ci sono prove inoppugnabili. Chi abbia un minimo di familiarità con il mondo editoriale, riconoscerà le dinamiche che subentrano quando uno diventa famoso, compresi certi passaggi che sanno di sano realismo, chi non le conosce, avrà comunque una visione, sia pur parziale, di cosa c’è dietro un romanzo. Al di là di questo, De Marco è abilissimo nel disseminare briciole di inquietudine lungo tutto il racconto, una parola un minimo accadimento, un cambio repentino del tempo che ti fanno correre un brividino lungo la schiena, salvo renderle del tutto razionali e per niente inquietanti poche righe dopo rendendo la lettura appassionante. Un omicidio plurimo senza colpevole, un uomo che cerca di uscire dal baratro, una storia d’amore e un odio che chiede vendetta, il tutto mescolato come un Martini da un barman d’eccezione, che ci mette l’ingrediente segreto, quel qualcosa che all’ultimo sorso (in questo caso l’ultima pagina), ti lascia senza fiato e con le gambe che tremano

RANCORE

Gianrico Carofiglio

Einaudi

Chi ha letto LA DISCIPLINA DI PENELOPE, in questo nuovo capitolo scoprirà cosa l’ha portata a lasciare la magistratura, a chi non lo ha letto, verrà voglia di andare a scoprire comunque qualcosa in più su questo personaggio. Entrambe le categorie comunque, arrivando all’ultima pagina non potranno che essere soddisfatte della lettura. Una donna affascinante, sebbene non ci siano descrizioni fisiche relative alla bellezza, non deve essere una ragazzina visto il ruolo professionale che aveva, non nasconde misteri, anzi, racconta senza vergogna le sue debolezze che sono quelle di tutti, non si considera una wonder woman, è assolutamente consapevole di sè e proprio per questo forse ci si identifica facilmente. Nella sua solitudine che non è un rifiuto del mondo, ma un isolamento cautelativo che durerà il tempo necessario a guarire le ferite che il suo modo di essere le ha inflitto, per capire verso quale strada andare. Nel suo modo un po’ brusco ma mai sgraziato o maleducato di approcciarsi agli altri, nel suo cercare. Bello bello proprio bello, così come è bella l’indagine che Penelope intraprende, la ricerca di qualcosa che forse non esiste, un reato che chissà se è stato commesso, ma dà la stura a riflessioni profonde, sulle dinamiche che muovono le persone a fare o non fare qualcosa, porta a pensare a quante volte diamo per scontate conclusioni che sono lontanissime dalla realtà. A quanto male possa fare il rancore, a chi lo prova a chi lo subisce a chi ne rimane invischiato. La poca e sommaria descrizione che ho dato, potrebbe far pensare che sia una lettura “pesante”, assolutamente no. Anzi, è un romanzo che nonostante tutto  regala la speranza che le cose accadute, per quanto non scompariranno mai, si potranno con calma superare. Vabbè, d’altra parte non è una novità che Carofiglio sia bravo no? Se ancora non lo avete, il consiglio è di metterlo in lista per il prossimo giro in libreria.

IL COMPLOTTO DEI CALAFATI

Francesco Frisco Abate

Difficile raccontare, laddove servisse, la trama di questo secondo romanzo che vede protagonista Clara Simon, stretta stretta come un caffè corto, una coppia di nobili e il loro autista viene uccisa dopo aver lasciato un galà, organizzato al fine di raccogliere fondi da devolvere alla Calabria, colpita tra il 7 e l’8 settembre 1905 da un tremendo terremoto, Clara Simon, vuole scoprire chi sia stato, far trionfare la verità e magari uscire dal sottoscala in cui è stata relegata ala sede dell’Unione, il giornale per cui lavora. In realtà nello svolgersi della trama si intrecciano (a partire dal titolo) una serie davvero nutrita di potenziali assassini. Giallo storico? Sì senz’altro si può definire così, io per la verità lo chiamerei romanzo “sociale” senza nulla togliere all’investigazione. Perché diciamolo, quello che intriga e che Abate racconta magistralmente, è la varietà dell’umanità raccontata. A partire da Clara Simon, giornalista italo cinese “ficcanaso” che ne fa un’investigatrice nata, ragazza intelligente e volitiva che pur avendo tecnicamente il diritto di essere incazzata col mondo, è invece pronta a dare a tutti una seconda possibilità, andando oltre il pregiudizio o la nomea, che mentre procede contro tutto e tutti, continua la sua ricerca del padre, dato per disperso ma che lei è sicura non essere morto, per continuare con i tanti coprotagonisti, splendidamente delineati. Romanzo sociale ho scritto, perché nel raccontare l’indagine Abate ci racconta una società fotografata in un momento particolare, dove le classi sociali non sono così definite, tranne forse per quanto riguarda nobili e non, ma comunque al loro interno si dividono in mille rami, pronti a intrecciarsi per l’interesse contro il nemico comune e ad allontanarsi e tentare di sopraffarsi perseguendo ognuno i propri scopi. È un periodo quello raccontato, ricco di fermento politico, per di più in una città che scopriamo vivissima e a dispetto “dell’isolamento” odierno, cosmopolita come non ci si aspetta. Anche dell’autore è difficile parlare, un giornalista a cui scappa di scrivere e gli scappa bene, sia quando racconta facendo sorridere (ridere) la vita di chi come lui ha subito un trapianto, sia quando si dedica al noir puro – Mi fido di te con Massimo Carlotto – sia quando per la voglia, come in questo caso, di raccontare la passione per la Storia, mescolando tutte le sue anime e per capire meglio cosa intendo, oltre a leggervi il libro, cliccate sul link per vedere l’incontro con le blogger. Se lo conoscete sarete soddisfatti, se non lo conoscete, bè, è ora di rimediare.

DI BELLEZZE E FETENZIE

MOON LAKE – J.R.LANSDALE

Che ci siano Hap e Leo o meno, il nostro mitico Joe sforna dei romanzi che sono perle preziose, Qui la storia di Daniel, ragazzo bianco – che ne Texas dovrebbe equivalere a privilegiato – purtroppo per lui non lo è affatto, il padre (forse un assassino) ha cercato di ucciderlo dopo avergli ricordato quanto gli vuole bene un attimo prima di far volare entrambi con l’auto sul fondo del Moon Lake. C’è una Storia affascinante su quel lago, c’è una vita parallela che Lansdale ci racconta un pezzetto alla volta, insieme ala storia di come Daniel diventa un uomo, cresciuto per anni da una famiglia di neri che lo ha accolto quando è miracolosamente uscito dall’acqua e poi preso in consegna, non troppo volentieri, dalla zia, sorella a lui praticamente ignota della mamma scomparsa ormai da tempo.  Da bravo ragazzino “vittima” degli eventi a uomo fatto che torna, uomo fatto, sul luogo per così dire del delitto. Come sempre l’autore scoperchia dei verminai impensabili che invece evidentemente esistono, magari non così come li racconta ma molto vicini. Eccelso nell’indagare le dinamiche interpersonali, i giochi di potere più o meno sottotraccia, nel raccontare i sentimenti, ogni sentimento, senza pudori e senza fare uno sconto neanche di pochi cent. Se non lo avete ancora fatto, immergetevi senza la minima esitazione nel Moon lake, un bagno all’inferno e ritorno magistrale.

AUTOPSIA – PATRICIA CORNWELL

È passato qualche anno, ci ho sperato che fosse tornata e invece no. Oh sia chiaro, la Cornwell continua a scrivere magnificamente ma fossi in lei prenderei in esame seriamente una psicoterapia. Allora, posto che distratti dall’ottima scrittura di cui sopra, siamo passati per tanti anni a molte, forse troppe incongruenze, arriva il momento in cui guardi le cose con occhi disincantati e ti accorgi che non basta più. Che la dottoressa Scarpetta sia particolarmente afflitta da una sindrome di persecuzione è ormai cosa nota, che riesca a vedere complotti anche nella lettiera del gatto che non fa la palla perfettamente rotonda, è assodato. Sappiamo che è la ziapraticamentemamma (non è un refuso) di wonderLucy , e qui il termine wonder rende meglio in italiano, sorprendente in tanti modi, che se deve andare dal punto A al punto B come minimo fa alzare in volo l’elicottero, che tiene sparse per casa armi di ogni tipo e quando dico per casa intendo anche nel cassetto delle posate. Che non è più definibile borderline perché il confine lo ha attraversato da un pezzo. Da un pezzo abbiamo sgamato il fatto che le sue origini italiane, che ama sbandierare vantando la sua abilità in cucina, non vanno oltre il cognome e uno smodato uso di aglio in ogni piatto (perlopiù insalate o pasta al pomodoro), che con Pete Marino che adesso ha sposato la sorella matta, riesce a incasinare e trasformare in casi assurdi anche il più banale degli omicidi. Tutta ‘sta pappardella però non basta. L’ho letto, l’ho ripreso pensando di essermi persa qualcosa di fondamentale e invece no. Non c’è proprio la storia, c’è un ego ipersviluppato che nasconde un complesso di inferiorità da mandare a nozze psicologi psichiatri e psicanalisti uniti. La trama, che ripeto non c’è, non provo nemmeno ad affrontarla, ma se avete amato i primi romanzi, risparmiate tempo denaro e fatevi un regalo, leggete altro. Sorry miss Cornwell, ma credo sia ora di cambiare decisamente mestiere.

I CANI DEL BARRIO

Non delude mai

Tempo di ritorni, sugli scaffali delle librerie nei kobo e nei kindle è tornato anche Biondillo con l’amato Michele Ferraro. Rassicurante, che per un giallista – ma tanto lui è un architetto – non deve essere un gran complimento e invece lo è. Perché ci sono quei periodi in cui o ti capita la botta di fortuna o apri decine di volumi non trovando soddisfazione in nessuno. Della George vi ho detto e grazie alla musa della scrittura ha riaperto la strada. Rassicurante quindi ritrovare Ferraro che diventa sempre più vecchierello, ma piano piano, come noi insomma, e come noi a volte ha la sensazione di fare sempre più fatica. I casi sono un po’ incasinati, nel senso che in uno inciampa per caso, mentre passeggia con Mimmo in via Padova, l’altro che sulle prime non gli è chiarissimo, in realtà non è cosa che riguardi il suo commissariato ma Lanza, che diciamolo è adorabile, gli “ordina” di stare a disposizione di Cereda, uno della questura che non è proprio il massimo della simpatia, mentre lui, Lanza, va a Bruxelles per una strana storia che sta cominciando a girare su un virus. È bravo l’architetto, niente da fare, si sposta da via Padova, che per i non milanesi è un ibrido fra un casino multietnico e la fighetteria di NoLo, una di quelle robe nate dalla riqualificazione delle periferie e Quarto, che adesso è un tranquillo quartiere di periferia a cui è rimasta appiccicata l’etichetta di inferno. E sarà perché sono di zona 8 e da Quarto mi divide solo il ponte Palizzi, mi sento molto a casa. E poi c’è Giulietta, la figlia ormai diventata grande che è più sbirra di lui, con in più la conoscenza del meraviglioso (è ironico) mondo dei social. Nel commissariato di Quarto c’è tutto quel che ci serve, poliziotti in gamba, nonostante le apparenze, le battute che se ne impippano del politically correct e l’ironia. C’è il covid sì, e pesta duro, ma con la sua consueta leggerezza che non è mai superficiale, Biondillo lo riporta a quello che è stato, un dramma vero che a qualcuno ha fatto tanto male ma rientra nelle cose della vita. Un giallo da regalarsi per un bagno di realtà ma col bagnoschiuma che lascia intorno un buon profumo di pulito.

UNA PICCOLA QUESTIONE DI CUORE

Lo approccio tranquilla perché l’autore è uno di quelli che non mi delude mai, non sapendo però cosa aspettarmi. Spiazzata piacevolmente ancora una volta. Monterossi, reduce da un bel successo incassato dalla serie televisiva (ma non nel libro eh) si rende conto che forse c’è una sola cosa che fa da motore per tutto. Una cosa che proprio lui, memoria corta o corazza non lo sapremo mai, non prende in considerazione se non in forme inconsuete. Eppure quando si trova davanti un ragazzino, uno a cui manca ancora qualche anno per essere definito un giovane uomo, che è pronto a tutto per ritrovare la donna che ama, qualche domanda gli si affaccia alla mente. Anche Falcone e la Cirielli, notoriamente due senza cuore, per denaro o per curiosità sentono smuoversi qualcosa. La storia che sembra risolta in un amen però, oltre ad essere ben strana, si complica assaissimo in un altro amen, perché la quasi quarantenne innamorata e sparita, non è poi una donna così ordinaria, anzi. Rumena, proprietaria di più di un’attività che sembra di copertura, si è nascosta perché ha delle  frequentazioni con persone non proprio limpidissime, tutti quei soldi che le girano intorno, puzzano di malaffare. Hanno quell’odore di sintetico, per quanto ammorbidente tu possa usare, quel sentore di plastica rimane sui sedili delle macchinone che sono i veri uffici di chi le usa. Impregna le case extralusso, e quelle anonime in cui la gene passa e a volte va a volte resta. Morta. Se c’è il morto ci son anche le forze del’ordine e in Italia o sono vestiti di blu o hanno una striscia rossa sul nero dei pantaloni. Teoricamente di pertinenza dei carabinieri, del morto che faceva parte delle frequentazioni di cui sopra, se ne devono occupare sottotraccia anche Ghezzi e Carella, impegnati fra l’altro rispettivamente a contenere l’entusiasmo della Rosa (moglie del sov. Tarcisio Ghezzi per il prossimo matrimonio dell’agente Sannucci e con una relazione che scardina tutte le sue certezza il mal mostoso Carella. La legge e il suo contrappunto privato, si trovano così a incrociarsi, per la gioia di chi non riesce ad amare più gli uni che gli altri, imbastendo un’indagine che davvero merita. L’immancabile Dylan fa da sottofondo ai dopocena (e che cene quelle dell’adorata Katrina), Monterossi ritorna per un attimo alla Grande fabbrica della merda e da spettatore si pone una domanda che poi è quella che alla fine ci accomuna un po’ tutti. Sebbene capiti di avere posizioni ideologicamente opposte, il Robecchi è una gran bella persona e a dispetto di un apparente cinismo, che è più probabilmente disincanto, raccontandoci di gente al limite – su quali limti ci si po’ sbizzarrire – coinvolge tutti, non gli scappa nessuno. In una pagina o nell’altra ci ritroviamo tutti, ragion per cui vale tutto il tempo che gli si dedica. Lo so, contrariamente al solito vi ho detto un sacco della trama mentre avrei dovuto parlare di più di come stiano evolvendo i personaggi, che sono poi la ragione che ci spinge a leggere i seriali, ma d’altra parte, non siamo mica dallo psicanalista, cambiano, eccome se cambiano, un po’ perché ogni giorno che passa è un giorno in più, un po perché anche loro, come tutti noi, hanno vissuto quella che viene definita “la peste” e ognuno di loro lo ha interiorizzato a modo suo. E no, per sapere qual è la domandona vi tocca leggervi il libro.

UNA COSA DA NASCONDERE

Il romanzo precedente è uscito nel 2017, potete immaginare la voglia di metterci sopra le mani e divorarselo, finalmente arriva il momento e mannaggia la pupazza a pagina 50 meditavo il lancio dalla finestra, a pagina 98 o giù di lì, ero certa che lo avrei lanciato. Due cosi indescrivibili (sì sì ho deciso di non usare il turpiloquio ma avete capito di che cosi parlo).  Una Londra che di solito non trovo nei libri, e già un po’ mi son sentita spiazzata,  dei miei amati non c’è traccia, in compenso ci sono delle descrizioni che farebbero imbestialire i santi. Ovvio che un attimo prima dell’abbandono, suppongo non per caso, sono entrati in scena i nostri e lì ho pensato che volevo proprio vedere come diavolo avrebbe intrecciato le storie. La George è quel che in America si chiamerebbe un fottuto genio. Alla fine il risultato è che ti bevi le rimanenti 400 pagine senza fermarti e alla fine ti esce un’esclamazione che userebbe Rocco Schiavone se qualcuno gli dicesse di aver fatto 6 al superenalotto. Sempre per evitare, inizia per m e finisce per i.

Stabilito che se già amate l’autrice qui la adorerete e se non la conoscete dovete darvi una mossa perché è una lacuna brutta, mi scappa una riflessione su come sia facile fare una cosa sbagliata nel tentativo di farne una giusta. Seguo la George sui social, è una dem molto attiva, a volte rasenta la violenza nelle sue esternazioni contro i repubblicani. Ovviamente è attivissima anche sul fronte razzismo, nel senso che è giustamente contro. Ecco secondo me qui, nel romanzo intendo, cercando (al di là del giallo che è magistrale), di far comprendere, di avvicinare i suoi lettori alla cultura africana, nigeriana nello specifico, cercando di sottolinearne la parte sana, e se leggerete il libro capirete cosa intendo, ottiene l’effetto opposto. Il bene non fa notizia, il bene non ti resta impresso, l’eroe buono lo dai per scontato. In compenso l’orrore di certi atteggiamenti di retaggi culturali che purtroppo resistono a qualunque tentativo di civilizzazione, ti resta impresso a fuoco. Il ritratto dei nigeriani ma in generale dei neri che vivono in Inghilterra (ma potrebbe essere l’America o l’Europa), che esce dalle pagine, è proprio brutto. Gente che non vuole integrarsi, che vede in chiunque non sia nero un nemico, qualcuno da sfruttare ma tenere lontano, i bianchi vanno disprezzati a prescindere e se ti sembrano amici, fingono. Davvero sgradevole nel complesso nonostante alcuni dei protagonisti neri siano assolutamente positivi. Spero e suppongo che abbia un po’ calcato la mano, ma il fatto che spesso, anche in Italia, se muovi qualunque osservazione, che niente ha a che vedere col colore, i neri si “difendono”dandoti del razzista, temo che non sia così distante dalla realtà.

Ferma restando quindi l’ammirazione per la scrittrice, che ripeto e ribadisco è grandiosa, mi resta la perplessità sul resto, su come nessuno dell’enorme staff di collaboratori, si sia posto il problema che  chi ha nell’animo anche solo una briciola di razzismo, leggendo questa storia si sentirà legittimato a sentirsi superiore, avallato nel suo considerarsi migliore e questo devo dire, mi dispiace assai.

Una mano più in là

Forse è colpa del fatto che se la vita non avesse deciso diversamente, avrei voluto fare il medico, o che ho vissuto un’infinità di pranzi e cene sentendo parlare dei casi clinici che i miei vedevano ogni giorno, rimane che il racconto di come passo dopo passo, sutura dopo sutura, un manipolo di uomini, ha fatto quello che sembrava impossibile mi ha inchiodata alle pagine. Oggi i trapianti in generale sono cosa usuale – mai abbastanza purtroppo – però se ci si ferma a pensare, anche solo guardando la copertina, a quante connessioni ci sono in una mano, fra tendini nervi arterie vene ossa e soprattutto a quanto sono minuscole, ci si rende conto di quanto enorme sia stata l’impresa e di quanto studio e determinazione abbia richiesto. Una mano più in là è una storia che a buon diritto è entrata nella Storia ed è il ritratto di un uomo che dovrebbe essere un esempio per ogni giovane che si avvii a diventare qualcosa nella vita. Un uomo che ha saputo coltivare una determinazione micidiale Non ha recriminato nemmeno quando per ben cinque volte, dall’autunno del 2002, dopo un numero esorbitante di pubblicazioni, dopo la direzione della Microsearch Foundation di Sidney, eseguito il primo trapianto di mano al mondo, avere operato in tutto il mondo, comprese Africa e India dove con la sua onlus ogni anno ricostruisce mani a chi non ha neanche l’aspirina, si candida al concorso per una cattedra di Professore di ruolo alla Insubria, per la materia che già insegnava come associato alla Bicocca, lo silurano a favore di qualcuno che non arriva a un decimo di quello che ha fatto lui. Cinque volte ha vinto il ricorso e ciononostante non gliel’hanno data. Non una parola ingiuriosa, solo la voglia di denunciare perché questo sistema marcio e malato cambi. Ha incontrato i potenti della terra, ha stretto le mani di tutti, ma per Marco Lanzetta Bertani, le più importanti, restano quelle dei suoi pazienti. Dai primi anni ’90 un giovane chirurgo insegue letteralmente in tutto il mondo i migliori da cui imparare. Lo fa con un obiettivo ben preciso, diventare lui il migliore nel suo campo. Nello specifico la microchirurgia della mano.Continua a studiare e lavorare, finché a Lione il 23 settembre 1998 fra mille difficoltà di ogni tipo, mediche etiche psicologiche logistiche e legali la mano espiantata a un morto, riprende vita.

IL FRANCESE

So blue so noir

Stamattina o forse ieri, ho visto sul profilo di Massimo Cotto – se non sapete chi è, pentitevi – due foto, la targa affissa al muro ddella casa dove è nato Giorgio Faletti e pochi metri più in là un rudimentale pisello, madò, la versione gentildonna pensavo non l’avrei vista mai, transeat. Mi ha irritato vedere le due immagini accostate, poi ho letto il commento, un pensiero su come probabilmente Giorgio avrebbe riso grazie al suo sguardo sul mondo. Vero, inesorabilmente vero quel che ha scritto. Mi è tornato in mente quello sguardo, quegli occhi azzurri che sembravano gelidi e invece ridevano. Li sento eh i vostri “ma dove diavolo vuole andare a parare?” Arrivo a un altro paio di occhi, altrettanto apparentemente gelidi che invece quando poi li conosci vedi che ridono. Gli occhi di Massimo Carlotto. Che giro eh, eppure c’entra, perché dei libri come quelli che sccrive Carlotto, possono venire solo da uno sguardo capace di vedere, non guardare ma vedere e raccontare quello che la maggior parte di noi guarda e basta. La storia de Il francese, il macrò – un pappone sui generis -è quella di tante donne che non rientrano nei circuiti consueti della prostituzione. Non sono le donne di strada, vittime in genere di piccoli delinquenti, tentacoli insignificanti e intercambiabili di un polpo gigante, sia le donne che i pappa, né le escort di lusso che non rendono conto a nessuno. Il Macrò ha raccolto solitudini, desideri, obiettivi e li ha organizzati. Ognuna delle sue donne ha uno scopo per fare quello che fa e ha una vita che esula, la prostituzione è un frammento delle loro giornate. Toni Zanchetta, che di francese ha solo il soprannome, in realtà è un veneto nato in provincia, quella provincia tanto cara a Catlotto, dove vigono ancora dei codici, dove quello che conta è l’apparenza. Su questo si sviluppa un romanzo forse un po’ meno duro del solito, ma affilato come un bisturi, su come un inciampo, banale se vogliamo, un granello di sabbia si infila nel meccanismo perfetto inceppandolo inesorabilmente. La trama è ovviamente perfetta, perché sempre di un maestro parliamo, mala vera storia è quella di come si sgretola centimetro dopo centrimetro, mattone dopo mattone, il muro su cui Zanchetta ha dipinto la sua immagine e il suo benessere economico. Il mirino di Carlotto è implacabile, suoi romanzi sono delle foto in bianco e nero, dove ogni particolare viene esaltato e il quadro generale perde importanza per lasciarla ad ogni singolo. Ecco dove torna l’importanza dello sguardo, quella capacità di focalizzarsi su qualcosa. Non c’è ombra di giudizio, che sarebbe facile visto l’argomento, non una parola in più dello stretto necessario per farci entrare nelle miserie umane. Un noir perfetto, senza nemmeno un lumicino di speranza nella redenzione dell’umanità. Solo la fredda implacabile luce da sala operatoria che non lascia spazio ad ombre e la penna di un grande autore con uno sguardo distaccato che può avere solo chi ha imparato nel raccontare, a prendere le distanze dalle emozioni senza averle perse. Ci vogliono occhi di ghiaccio che sembrano non potersi addolcire. Ci vuole ironia per guardare il mondo piccolo dove sono spuntate le nostre radici, e raccontarlo da lontano dove sono arrivati i nostri rami. Bisogna avere orecchio diceva Jannacci, bisogna averlo tutto e Carlotto ce l’ha. E per chiudere il cerchio, chi ha avuto in sorte di poter vedere gli occhi di cui parlo, non potrà che darmi ragione, gli altri dovranno fidarsi e “acccontentarsi” della meraviglia di uan scrittura perfetta.