È il pomeriggio di un giorno speciale, l’ultimo dell’anno lo è sempre no? Aspettative bilanci e progetti. Ma che progetti possono avere quattro ragazzi che hanno tutto, genitori ricchi, case da ricchi e la noia dei ricchi? Il programma prevede una festa intima, solo loro quattro, con catering e tanto alcool. I genitori sono riuniti nella villa poco lontana, possono vederli ballare bere e chiacchierare tra loro. Un gioco in attesa della cena. Si comincia col monopoli cambiando un po’ le regole, invece dei soldi si fa obbligo o verità. Gli obblighi dapprima stupidaggini come il paga pegno dei bambini, si fanno via via più maliziosi, le verità da confessare, via via più intime. Pensano di sapere tutto gli uni degli altri e probabilmente è davvero così per quanto riguarda le loro vite esteriori, ma ci sono pensieri segreti e verità che non si condividono con nessuno, almeno non fino a quando non si raggiunge per qualche ragione il punto di rottura, un po’ come quando si colpisce una vetrata nel punto esatto che la ridurrà in briciole. Complice l’alcool o forse quella necessità insopprimibile che ha la verità di uscire prima o poi, la serata si trasforma in una seduta collettiva di psicoterapia in cui ognuno dei quattro amici (o delle due coppie) tira fuori ogni cosa, tutti i rancori le insoddisfazioni le infelicità e le bugie, imboccando una strada senza ritorno. Maestra nel creare thriller, negli ultimi romanzi l’autrice ha abbandonato almeno in parte la scrittura “investigativa” per concentrarsi sulla psicologia, su quello che muove i personaggi a compiere anche le peggiori aberrazioni. A me affascina la capacità di mettersi dalla parte di chi subisce, no giustificando mai ma dando spazio a tutto quello che si muove nella mente e nel cuore di chi subisce. E poco importa che la violenza sia fisica verbale morale o di qualunque altro tipo, il messaggio che arriva è forte e chiaro, la violenza genera se stessa e le conseguenze non sono mai quelle che ci si aspetta, ma molto molto peggiori.
È la mattina del 3 settembre, le 8 del mattino per essere precisi e sulle rive del Ticino in mezzo alla boscaglia succede un fatto brutto, l’ex ispettore Ennio Guarneri che voleva solo stare in pace nel silenzio, si trova a dover intervenire per sventare un omicidio o almeno così crede in quel momento. Sono passati due anni da quando ha fatto la cazzata che lo ha fatto uscire dalla famiglia della Polizia, ha pensato per un attimo che la giustizia potesse prevalere sulla legge ma è stato clamorosamente smentito dai fatti. Da quando ha restituito tesserino pistola e manette, si è come dire ritirato in casa, a meditare a capire a pensare, tanto per il momento problemi di soldi non ne ha, può decidere con calma cosa farà. Intanto ha deciso di fare una cosa che sembra strana assai, a cinquant’anni ha preso contatto con la sua maestra delle elementari per rifarle. Imparare da grande le cose che hai imparato da piccolo può sembrare senza senso, ma ne sente il bisogno, forse per capire come è arrivato fino a lì, e la maestra Girelli ha accettato, dalla terza alla quinta però, prima e seconda sono un po’ troppo. L’assassino torna sempre sul luogo del delitto si dice e a volta lo fanno anche gli ex ispettori, quel fatto brutto gli ha lasciato troppe domande e dei brutti presentimenti che ahi lui, si riveleranno fin troppo reali. Nel giro di pochi giorni la vita di Guarneri è sconvolta come già era successo quando ha lasciato la polizia e anche questa volta a scatenare il tutto è quella sottile differenza che passa tra giustizia e legge, fra i concetti stessi che indicano le due cose. In realtà c’è molto altro a sconvolgere Ennio, e quando lo finisci questo romanzo, ti chiedi se hai letto un noir (purissimo, perché diciamolo, Montanari è fra i migliori autori in circolazione) o se hai letto un romanzo a tutto tondo. La storia è verosimile assolutamente credibile e orchestrata perfettamente. Un noir vero, poi però man mano che decanta ti accorgi che hai letto forse una storia d’amore o addirittura qualcosa di filosofico. Oserei addirittura onirico. Ogni personaggio potrebbe essere una metafora. L’argomento rappresenta un dilemma dall’antichità direi, legge e giustizia non corrispondono quasi mai, in generale nel mondo e qui da noi in maniera particolare. Montanari, scrittore di lungo corso e insegnante di scrittura creativa, ha una mano fatata, non si distingue per uno stile particolare e non ha personaggi seriali che richiamino immediatamente il suo nome, ma ad ogni romanzo, qui all’autore si affianca lo scrittore, dà un qualcosa di particolare e unico, pur mantenendo uno stile assolutamente personale e riconoscibile. Lo distingue forse la pacatezza, che peraltro, per quel che ho potuto constatare negli anni, sia pur in ambito di incontri letterari e della conoscenza virtuale, gli appartiene come persona e che riesce a mantenere anche quando descrive situazioni e scene oggettivamente terribili. Promosso come sempre a pieni voti. Dell’autore e della sua carriera e cultura non sto a raccontarvi niente, è scrittore docente traduttore soggettista sceneggiatore eccetera, i suoi lavori troppi per essere elencati, vi linko (dio che roba orribile) wiki, così se per caso vi incuriosisse saperle tutte, lì le trovate. Siccome sapete che sconti qui non se ne fanno né agli amici né ai nemici, io ho scritto di getto le mie impressioni e poi gli ho chiesto se gli andava di togliermi un paio di dubbi (ebbene sì, riconosco a volte la mia fallibilità). Gentilissimo come sempre ha risposto e vi posto qui di seguito domande e risposte.
– Leggendo il romanzo, più che una solitudine imposta, ho avuto l’impressione di una solitudine cercata non tanto come necessità di essere “tutto suo”, quanto come momento di riflessione, di ricerca di un nuovo equilibrio che viene interrotto dagli eventi, mi sbaglio di tanto?
Né di tanto né di poco: è così come dici. La frase di Leonardo, “Sii solo e sarai tutto tuo”, è sublime, ma aveva più ragione Aristotele quando diceva che l’uomo è un animale sociale: non possiamo pensare seriamente di vivere separati dai nostri simili, e non a caso l’isolamento è la punizione più temuta per un carcerato. È vero invece che la solitudine intesa come raccoglimento, come ricongiungimento col nocciolo profondo di ciò che siamo, è una misura igienica dell’anima. È necessaria, specie dopo una crisi, per ripartire nella direzione giusta, allontanandosi dal baratro.
Mi viene un paragone frivolo: non si può vivere sotto la doccia, ma la doccia bisogna pur farla ogni tanto. Ecco, non si può vivere soli ma i momenti di solitudine devono essere come la punteggiatura della nostra vita in mezzo agli altri.
– Alla fine del racconto, dopo aver detto “che bello”, ho pensato a quanto verosimile e nello stesso tempo surreale sia la vicenda raccontata. Hai cercato dei riscontri per quello che racconti (che sembra più che plausibile e probabile) o sei andato di fantasia?
Ti sembrerà strano ma in questo romanzo, rispetto ai precedenti, c’è un tasso di invenzione bassissimo. Avrai notato che la narrazione è continuamente attraversata da episodi ricordati, raccontati, rivissuti: sai che nove su dieci sono veri, perfino quelli che sembrano più incredibili? Certo la vicenda nel suo insieme ha qualcosa di fantastico, tanto è vero che quando il protagonista cerca di riassumerla al prete da cui ha deciso di confessarsi, verso la fine, la trova lui stesso così assurda che deve interrompersi per un accesso di riso. Questa però è l’assurdità della vita: perfino l’esistenza più banale può assumere una sfumatura irreale, se vista da una certa prospettiva.
– Tutto il racconto mi è sembrato in realtà propedeutico alla “rinascita” di cui parlavo prima, una sorta di ricostruzione (in cui Ric diventa quasi una figura metaforica) per poi poter partire da una pagina bianca, in particolare una sorta di pulizia per essere pronto all’amore, sono troppo romantica?
No, anche questo è vero. Il percorso sanguinoso che il protagonista attraversa è un rituale di rigenerazione, di rinascita. Tutti i simboli che lo accompagnano suggeriscono questo percorso da buio a luce: l’uccello predatore attraverso gli occhi del quale vediamo il Prologo (un cormorano, destinato a morire) e quello intelligente, versatile, più simile alla nostra dimensione umana, il cui sguardo accompagna la camminata del protagonista nel finale (un corvo). E naturalmente le ultime righe, quel cielo ancora rannuvolato dietro il quale il sole, “con la sua terribile pazienza”, aspetta il varco.
Ric è un personaggio che, nonostante l’aspetto comico, ha caratteristiche mitologiche. È un demiurgo, un trickster (infatti è un maestro di tricks, di trucchi), un angelo-demone che sta a metà fra il mondo degli uomini e quello degli dei. Non a caso nei miei romanzi compare a un certo punto – mai all’inizio – e scompare alla fine, dopo aver accompagnato il protagonista nel viaggio che dicevamo.
– In virtù delle due cose che ho detto sopra, sarebbe assurdo definirlo un noir (perché quello è di sicuro) onirico?
Perché no? Mi ricordi il giudizio che Michel Ciment diede del secondo film di Kubrick, Il bacio dell’assassino, un’opera difettosa ma affascinante che in seguito il grande regista ripudiò nella sua ansia di perfezione. Ciment disse appunto che quel film aveva “il sapore di un lungo incubo a occhi aperti”. Una qualità onirica, appunto. Non dimentichiamo che i sogni, come i fantasmi, non sono affatto vaghi e inconsistenti: sono fatti di dettagli straordinariamente realistici. I mattoni di cui sono fatti i sogni sono gli stessi della vita di ogni giorno, ma disposti in modo sorprendente.
Difficile parlare di Cristina Cassar Scalia, come con tutti gli autori seriali bravi, si rischia di cadere nella banalità più assoluta. Non mi sento di dire che è cresciuta come autrice per il semplice motivo che Vanina e i suoi compagni di squadra erano perfettamente delineati già nel primo romanzo e indubbiamente era chiaro che la ragazza aveva il talento necessario per inventarsi delle trame “poliziesche” assolutamente perfette. Crimine e Sicilia è un binomio che quasi inevitabilmente si riassume in una parola, ovviamente mafia, ma la particolare sensibilità dell’autrice è riuscita a darci una visione diversa, Vanina è un poliziotto a cui la mafia ha tolto tanto, troppo e quella perdita l’ha cambiata dentro, le ha svelato qualcosa di sé stessa che forse non immaginava e nello stesso tempo ha cementato il suo senso di giustizia, spingendola a diventare un mastino. Ma come spesso accade quel che si vede è ben diverso o almeno fuorviante rispetto alla verità, Ha lasciato l’antimafia ha lasciato il suo uomo (dopo avergli salvato la vita) e ha lasciato la sua Palermo per trovarsi anche lei sotto scorta a causa di una palese – anche se lei non è convinta – minaccia mafiosa. Insopportabile per un’anima libera eppure quel mastino, quella donna (di cui la Cassar Scalia apposta non ha mai dato descrizioni fisiche) che non si ferma davanti a nulla, che vive la sua solitudine come un comodo nido, scopre grazie a questa forzata clausura il calore dell’affetto, quello da cui rifugge o tenta di farlo. Quello sincero dei suoi uomini che vanno ben oltre quello che il dovere imporrebbe, quello di Paolo che ancora la ama e sa di essere amato, quello di Bettina, la sua anziana ma vivacissima padrona di casa che si adegua senza un plissè a diventare un ulteriore pezzo della scorta con l’auto imposta mansione di vivandiera. E poi quello di Federico, l’uomo che ha sposato la madre, quello che lei ha sempre considerato un po’ un usurpatore e tenuto a distanza, che invece la ama teneramente come il padre di cui ha preso il posto accanto alla madre. Senza dimenticare Patané, l’anziano commissario che è praticamente rientrato in servizio. Una donna, una poliziotta che romanzo dopo romanzo conquista i lettori che ancora non la conoscono e si installa sempre più saldamente nel cuore di chi la segue dall’inizio. Cristina Cassar Scalia, figlia di una terra così speciale come la Sicilia, ci restituisce, anche grazie alle descrizioni dei piatti tipici ( ebbene sì, i poliziotti italiani escluso forse Rocco Schiavone, mangiano di gusto e bene), tutto il calore un po’ nascosto di chi è nato su un’isola, lo fa con la classe di un’autrice di gran calibro, senza far mancare qualche sorriso ma tenendo il lettore sul pezzo con passione.
Non conoscevo questo autore, per cui ne parlerò come se fosse il suo primo romanzo (anche se in realtà ne sono già usciti altri), mi è stato proposto da una persona che stimo e sulla cui professionalità nello scovare talenti non nutro il minimo dubbio, pertanto l’ho preso in mano più che volentieri. Trattasi di giallo classico, anche se lo strillo parla del noir più atteso dell’anno, quindi partiamo dal presupposto che ho in primis prestato attenzione alla trama, ottima, costruita solidamente senza punti di caduta e senza buchi, il movente c’è, ce ne sono molti in realtà, e anche i possibili assassini non sono pochi. Le vittime sono i cattivi e i buoni vestono la divisa della polizia. A livello trama quindi, promosso a pieni voti. Per quanto riguarda tutto il resto, vado punto per punto. I personaggi: di base molto belli, un commissariato relativamente tranquillo (quello di Monteverde) e una squadra eterogenea ma ben amalgamata. Il commissario, sovrappeso pacioso ipocondriaco e divorato da un’ansia patologica – leggerissimamente sopita dalla presenza di Chagall, un cane che gli ha forzatamente fatto capire che si può vivere anche dedicando del tempo ad un altro essere vivente, soprattutto se dipende da te. Un viceispettore algida come un ghiacciolo, un’altra che anche diventasse capo della polizia, deve costantemente sottostare a nonna, una dolce vecchina piena di energia che comunque la considererà sempre solo la sua nipotina e poi i Ringo boys, due agenti di cui uno (come si evince dal soprannome) è di pelle nera. Di ognuno di loro si intravede la strada che ha davanti, un percorso di crescita – che ovviamente prelude a nuovi romanzi – e di ciascuno si intuisce anche la presenza di un passato che col tempo e “giustificherà” ampiamente le “stranezze”. Anche i personaggi quindi sono promossi. Quello che mi ha lasciata perplessa è la sovrabbondanza, di citazioni un filino troppo colte, di aforismi di luoghi comuni e frasi fatte sulla bellezza della Città eterna e sui suoi guai. Troppe “battute” non tutte all’altezza. Troppo caratterizzati i protagonisti. A questo punto è ben chiaro che le “critiche” sono esclusivamente dovute al gusto personale, però ecco, non aspettatevi lo stile nordico la durezza di Carlotto né l’asciutta e sensuale scrittura di Pulixi, piuttosto un Pandiani esasperato e meno crudele.
Il ragazzo è giovane e la strada mi sembra quella giusta, in più ha una qualità non da poco in uno scrittore, sa ascoltare le critiche (motivate) e ne prende nota, perché anche se chi legge non è D’Orrico, è quello che la prossima volta comprerà o meno il libro, ne scriverà su un blog o una rivista e farà passaparola. Fidatevi che la modestia è qualità davvero non da poco.
Tutto ciò premesso, e io so che voi leggete fino in fondo, se lo conoscete e vi piace, continuate a leggerlo, se non lo conoscete, dategli fiducia e leggetelo, probabilmente resterete soddisfatti (mica tutti son piattole come me). Come ha detto uno che ne sa, “il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette”
Oggi qualche spruzzo di veleno, sì sì, su Fedez o meglio, sul polverone che ne è seguito. Ha detto cose sacrosante e non ci piove. Ho letto che ha la terza media, beh, conosco dei laureati molto più ignoranti di lui, in compenso sua moglie oltre ad essere laureata in economia (e gran gnocca), tiene come docente dei corsi di economia negli States, e tanto per gradire è stata chiamata nel CDA di un’azienda che proprio piccola non è. Questo per dire che se i Ferragnez hanno il numero di followers che hanno, non è un caso e chi pensa che sia solo “culo” non ha capito nulla.
Se esistesse o fosse esistita una qualche forma di censura, Fedez su quel palco non ci sarebbe stato, ho ascoltato attentamente sia l’intervento incriminato, sia la telefonata, opportunamente registrata. Cosa ci sia di strano nel fatto che la direzione del servizio pubblico abbia chiesto di non fare nomi o al limite edulcorare, non riesco a capirlo. Mi sarebbe parso strano il contrario. Che abbia potuto alla fine dire tutto ciò che aveva sul gozzo, mi sembra una palese dimostrazione che la censura di cui tanto si parla non esiste. E adesso vengo al discorso vero e proprio.
I “signori” che lui nomina, mi ricordo solo Pillon, mi sembra si siano definiti da soli con le affermazioni riportate, per altro datate e senza meno già derubricate a deliri inconsulti. Per quanto concerne il DDL Zan, mi pare che in Italia ci siano già leggi operative contro l’omofobia il bullismo l’odio la misoginia le discriminazioni di ogni tipo (figuratevi che mi sembra di ricordare ci siano addirittura come principio perfino nella Costituzione). Il problema è che l’ignoranza o comunque i sentimenti, perché sì, l’odio è un sentimento, non li puoi regolamentare con la legge. Non a caso esiste il divorzio. Quindi sostanzialmente di per sé è un DDL inutile – che non significa che i principi enunciati non siano sacrosanti – Per quanto riguarda la specifica sulle cose importanti per cui il parlamento ha trovato tempo, invito tutti a riguardarsi la composizione del parlamento, ma così, giusto per evitare di dare addosso solo a qualcuno (che le sue colpe le ha eh, sia ben chiaro). Invito anche sia i leghisti sia i sinistrorsi, a informarsi un filo meglio e sul costo del “Concertone” sia sulla storia dei 49 milioni.
Non ho sentito parlare né Fedez né nessun altro, dei posti di lavoro persi, della miriade di contratti che negli anni sono stati inventati, con l’avallo dei sindacati, per dare agio ai datori di lavoro di passare da un dipendente all’altro appena scadono, l’apprendistato lo stage il tirocinio i COCOCO e tutti quelli che vi vengono in mente, senza che il malcapitato/a abbia modo di avere un contratto di lavoro regolare. Non ho sentito una proposta che fosse una, tantomeno nel Piano per i fondi europei, che non fosse aria fritta. Proposte concrete intendo, se le ho perse, vi prego di correggermi.
Per concludere, Federico Lucia in arte Fedez, ha tutta la mia ammirazione per come gestisce il suo lavoro e per le cose che insieme alla dottoressa Ferragni, ha fatto di concreto durante questo anno, sopperendo a carenze statali e mettendoci del suo, ma per favore, piantatela di essere così ipocriti. Prendete atto di come sono le cose e le persone dietro la facciata, di come sono per davvero. Che trucco parrucco e copioni, fan diventare santo anche il diavolo in persona.
Negli anni ho imparato che quando prendo in mano un suo romanzo posso aspettarmi di tutto, soprattutto quando non scrive di crimine organizzato o con i personaggi seriali che tanto amiamo. Così è stato con La signora del martedì e quest’ultimo non ha fatto eccezione. Finita la lettura, devo sempre lasciar decantare almeno un paio di giorni, poi mi lascio colpire, uno dopo l’altro, dai colpi potentissimi che sferra e dal senso di “sgomento” nel riconoscere la vita. Un romanzo con dei picchi di crudeltà altissimi nella loro apparente banalità. Un desolante quadro che “spiega” molte cose su come tutto, nonostante apparentemente sia in perpetuo movimento chiamato progresso, in realtà resti sempre uguale a se stesso, l’essere umano in particolare. Ambientato in una cittadina, centro di una valle, una qualsiasi nel nord Italia, dove gli abitanti guardano con compiacimento alle interminabili file di Tir che significano lavoro e soldi per la Valle. Gente semplice, che nonostante gli anni siano passati anche lì, continua imperterrita a dividersi in due categorie. I “normali” e i maggiorenti, convivono pacificamente ovvio, ma non si mischiano, come olio e acqua le loro vite scorrono su binari ben definiti, incontrandosi incrociandosi, ma che educatamente si girano attorno, non si mischiano. Carlotto, come credo quasi sempre, ha preso spunto da un fatto realmente accaduto, ha raccontato una storia di mediocrità ma non quella della maggior parte dell’uomo medio, che si limita ad ambire senza agire; no, qui si agisce – in nome di due o tre principi sacri validi per maggiorenti e no; “fra di noi ci si aiuta” (dove noi sono gli appartenenti alla comunità da cui i “foresti” per quanto buoni o ricchi e generosi, sono comunque guardati con sospetto). Per raggiungere i propri scopi ci si autoassolve qualunque cosa si faccia e non si perde la faccia dichiarando i propri fallimenti che non si devono venire a sapere. Queste le basi da cui prende l’abbrivio la storia. Il foresto, lo straniero – forse l’unico pulito – che diventa la vittima sacrificabile è Bruno Manera, un vedovo ricco immobiliarista che ha avuto l’ardire di sposare in seconde nozze la figlia di uno dei maggiorenti, lo ha fatto per amore al contrario di lei che dopo un po’ si accorge di non amarlo e intreccia una relazione con una sua vecchia fiamma. Bruno comincia a diventare bersaglio di atti vandalici e aggressioni, fino appunto all’ultima che lo ucciderà. Il come il chi e il perché sono il ritratto della cittadina, dei suoi abitanti, dalle reazioni di ognuno e da come ciascuno mette in secondo piano qualunque remora, anche l’umana pietà pensando a come approfittare della situazione per fare un passo avanti nei propri progetti. Di come il compiere reati sia diventato più semplice non tanto per la relativa facilità con cui si sfugge alla legge, quanto perché diventa una strada equiparata. Il crimine qui è un modo come un altro per elevarsi sulla scala economica e sociale, l’appiattimento culturale o la mancata “evoluzione” (tipica dei luoghi chiusi), porta anche a quello morale e etico. Gli ostacoli, veri o presunti che siano, vanno eliminati senza lasciare traccia nemmeno sulla coscienza. I personaggi sono come sempre spettacolari nella semplicità con cui l’autore li descrive. Spiccano con ferocia le donne, il vero motore che tiene in piedi il presente, lasciando agli uomini l’illusione di essere le parti attive. L’ennesimo romanzo da non perdere, un noir purissimo che non può che affascinare e trovarsi un comodo posto fra quelli che resteranno.
Un anno dopo Predatori e prede, Temperance, Tempe per quasi tutti, si ritrova di nuovo ad aver a che fare con qualcosa che torna dal passato. Ok è il suo mestiere, ma è anche vero che è assolutamente improbabile trovarsi a lavorare su due casi accaduti a anni di distanza, in luoghi diversi e che presentano così tante analogie da mettere i brividi. Eppure improbabile non significa impossibile e Tempe, viene chiamata a “indagare” su due corpi, presumibilmente uno adulto e uno molto più giovane, incellofanati legati e infilati in un barile che riemerge dall’acqua.
Per me che amo questa autrice e la sua anatomopatologa forense, è sempre un po’ complicato seguirla nei suoi andirivieni fra il Quebec e il south Carolina, come anche a essere onesta, fra i suoi vari e numerosi incarichi, ma ho risolto fregandomene allegramente, quando ci mette qualche parola in francese è probabilmente in Quebec, altrimenti giù in Carolina, ammetto spudoratamente che mi sono anche persa un romanzo quello che nomino all’inizio, pubblicato lo scorso anno, in cui devono essere accadute un po’ di cose, ma tanto l’ho già messo nel reader e quindi recupererò al più presto, ciononostante, pur avvertendo che mi mancava qualcosa, devo riconoscere ancora una volta la bravura della Reichs.
Mentre siamo ancora in balia del covid, almeno in Europa e in gran parte del mondo, la storia, che è estremamente complessa, parla della situazione come praticamente finita ma inserisce nello sviluppo del romanzo, la parte fondamentale a ben vedere, l’ambiente delle case farmaceutiche, delle società di ricerca dove si studiano e producono vaccini, anche sperimentali e di una nuova “strana” esplosione di contagi di una malattia che per delle mutazioni genetiche e del dna, diventa trasmissibile (o almeno così pensa una parte della popolazione) dai cani agli umani. Riesce insomma a inserire, anzi a costruire quasi completamente, un romanzo basato sull’attualità – a mio parere esprimendo anche chiaramente il suo pensiero – senza che il lettore lo realizzi fino a quando non finisce il libro. Operazione decisamente non facile ma perfettamente riuscita. Come sempre, se ve ne parlo qui, sempre a mio immodestissimo parere, vale la spesa e il tempo.
Un romanzo inaspettato, nel contenuto intendo, Robecchi come gli altri moschettieri di Sellerio lo aspetto per rilassarmi senza cedere a letture “vuote”, il famoso divertimento intelligente. Mi aspettavo ovviamente che il Monterossi o il Ghezzi con i loro sodali mi trascinassero in una delle follie a cui mi hanno abituata e invece Robecchi mi ha cambiato tutte le carte in tavola, anzi ha proprio giocato con un altro mazzo.
Il giallo direi che non c’è, sicuramente c’è la tensione del non sapere il perché e come finirà. Il perché viene svelato subito, si snoda pagina dopo pagina, qualcuno vuole lanciare un messaggio forte alla Nazione e per farlo decide di usare la madonna del plasma, Flora De Pisis. Per farlo la rapisce. Il riscatto oltre ad una bella cifra, consiste e in un’ora di trasmissione senza interruzioni di alcun tipo praticamente a reti unificate. Monterossi in quanto “creatore” del personaggio, viene coinvolto insieme a Falcone, ma il ruolo è marginale, diciamo che fa da filo conduttore, in fin dei conti come la conosce lui Flora, nessun altro.
In realtà nel complesso del romanzo, diventa uno di noi, anche lui costretto a fare ipotesi e supposizioni, perché il comportamento della diva spiazza tutti. Ma quindi cosa voleva comunicare Robecchi? Va da sé che qui ci trovate quello che è arrivato a me che non ho certo la pretesa di avere la verità in tasca. La contrapposizione è palesemente fra la finzione e la realtà. Quello che i rapitori vogliono comunicare al mondo è “solo” una storia che ha contribuito a fare la Storia. La vita e soprattutto la morte di un poeta (siamo onesti, misconosciuto a molti), il francese Desnos, noto per il feuilleton radiofonico Fantomas e poi per il suo spirito surrealista, libero amante e sostenitore (anche politicamente)della libertà, che il nazismo ha cercato di imbrigliare senza riuscirci, perché la sua poesia il suo amore tormentato, sono ancora qui nonostante lui sia morto poco dopo la liberazione dal campo di Terezine. Finzione e realtà dicevo, e qui entra in campo la mia personalissima interpretazione, perché in realtà i rapitori di Flora, intendono usare per proclamare la libertà di pensiero, intesa proprio come pluralità vivacità e confronto, il mezzo che tutto appiattisce, che in qualche modo alimenta il pensiero unico e l’incapacità di critica. Magari Robecchi ha solo scritto una storia intorno a uno dei suoi personaggi, giustamente essendo tanti punta il faro ora più sull’uno e ora sull’altro, ma mi piace pensare che ci sia una specie di speranza.
Come me la De Pisis non conosceva Desnos, eppure la sua storia l’ha coinvolta (oddio, potrebbe aver solo recitato il suo ruolo per pararsi il palestrato didietro, ma insomma, è un romanzo e io ci leggo quel che voglio), le ha risvegliato quell’essere “autentico” che ormai è stato soppiantato dal personaggio. Restano i dubbi alla fine, a noi come anche al Monterossi & co., resta la consapevolezza che se per un attimo si è intravista la possibilità di un riscatto intellettuale collettivo, sarà appunto fuggevole e la produzione della Grande fabbrica riprenderà il suo posto velocemente, ma è bello pensare che possa accadere, che da qualche parte, quel paio di neuroni e di sentimenti, esistano ancora.
E niente, a me la Penny piace proprio, non è stato amore a prima vista, il primo che ho letto non è scorso via veloce, ma se poi ho preso per mano anche il secondo eccetera evidentemente qualcosa ci avevo trovato e il mio intuito difficilmente sbaglia. Gamache ormai è una figura familiare, come Reine Marie (sua moglie) le famiglie dei figli e tutta l’allegra tribù che vive a Tree Pines.
Le trame sono sempre complesse e intrecciano quel dilemma che fa parte della vita di tutti, vale più la nostra etica, la morale o sono più importanti le leggi dello Stato? Certo il capo, anzi l’ex capo della Sureté di Montreal è un personaggio complicato nella sua semplicità. Conscio che esistono il bianco e il nero ma anche di quante possono essere le sfumature di grigio.
I diavoli del titolo non sono in Quebec ma a Parigi e sono una citazione che il padrino di Gamache, il miliardario Stephen Horowitz gli ripete da quando, ancora bambino, lo portava a scoprire i giardini nascosti e gli edifici più significativi della ville lumiere. Del suo padrino si è sempre fidato ciecamente, le stranezze che ha commesso (di nascosto) negli ultimi tempi e le insinuazioni di un suo passato collaborazionista non riescono a scalfire comunque né l’affetto né la fiducia. A maggior ragione quando sotto i suoi occhi lo investono deliberatamente riuscendo quasi a ucciderlo e quando nel suo appartamento, Armande e la moglie trovano un cadavere mentre il probabile assassino è ancora in casa. Il dilemma, il dramma oserei, è quando si rende conto che chi ha ordito la trama in cui si trova invischiato, che coinvolge tutta la sua famiglia, potrebbe essere addirittura il capo della prefettura o il suo vice.
Avvincente avvolgente coinvolgente, ha un ulteriore pregio – vabbè almeno per me lo è – puoi interrompere la lettura, vivaddio nella vita c’è anche altro da fare, e non appena lo riprendi in mano, dalla prima riga sei di nuovo immersa nell’atmosfera, che si sia interrotta la lettura in un momento angosciante o che lo si sia fatto in un momento gioioso onestamente non credo che sia facile mantenere un equilibrio nella scrittura che sia così fluido, anche nei passaggi ripeto, da momenti terribilmente drammatici come la morte violenta ad altri che inneggiano alla vita che va avanti, come una nascita.
Sullo sfondo, come le quinte di un teatro che cambiano di atto in atto, Parigi e il freddo Quebec, entrambi posti pieni di fascino e di vita, due mondi che più distanti non si potrebbe e ciononostante non riescono a scalfire minimamente la solidità delle figure protagoniste. Non perdetelo e se non l’avete ancora incontrata, leggete tutto quello che trovate, mi ringrazierete. Scommettiamo?
Sara con gli occhi che vedono tutto e non hanno visto quelle poche (o tante) cose che Massimiliano ti ha tenute nascoste, Sara che vede i sentimenti che le persone tentano di nascondere, Sara che se necessario uccide, Sara che ha perdonato suo figlio per non averla amata, Sara che non conosce la sconfitta se non quella che solo lei può infliggersi. Sara che adesso sfida addirittura il destino, quel destino che le ha tolto (credeva) tutto e invece le sbatte in faccia l’ennesima prova. Sara che non si piega. Sara ha imparato a nascondersi, a diventare “invisibile”. Che ancora una volta si trova di fronte il suo passato e non può evitarlo perché da quel passato dipende la vita di Massimiliano piccolo, letteralmente e lei non permetterà che accada.
All’incontro con lui per la presentazione del romanzo ai blogger, sono uscite tante cose interessanti, una fra tutte, la convinzione oserei dire pressoché unanime che siamo di fronte all’uomo allo scrittore, più femminista delle femministe, nella testa e nel cuore. Le donne di de Giovanni non sono neanche lontanamente inferiori né alcun personaggio maschile oserebbe non considerarle alla pari se non addirittura superiori. Lo sono Enrica Livia Bianca tata Rosa e perfino Nelide, lo sono Ottavia Alex la Martone Elsa e perfino la figlia, così come lo è Mina. Lo sono non lo rivendicano, non sgomitano per avere il loro posto al sole, è il sole che le cerca. Non chiedono, gli viene riconosciuto. Lo è Viola, Sara forse più di tutte, per il mestiere che ha fatto, per le scelte di vita e a mio parere, ancora di più per come coniughi naturalmente la sua forza con un’anima gentile (che mai si perde in smancerie), con un cuore grande.
È proprio negli occhi di questa donna, di una nonna, su cui Maurizio non si era mai soffermato, c’è tutto quello che lei non vorrebbe si vedesse. Occhi verde azzurri in cui vedi tutto, per fare una citazione musicale “che non san nasconder niente neanche quanto tu sia intelligente”.
Bene, adesso che forse si è vagamente intuito quanto io ami questo personaggio, posso parlare del libro. Fino a qui la Morozzi, ha “risolto” sostanzialmente dei gialli, dei casi polizieschi, sia pur facendo ricorso alle antiche amicizie dell’ambiente di lavoro, stavolta non c’è un caso da risolvere, ma la maestria dell’autore lega indissolubilmente la salvezza di Massimiliano ci porta indietro negli anni, quando nel mondo che noi non vediamo, in quel chiaroscuro che avvolge i Servizi segreti (dritti o deviati poco cambia), anni in cui sono maturati odi personali che ancora persistono, desideri di vendetta alimentati nel tempo dall’ideologia, Una spy story in piena regola. Tanto per non smentirsi, sappiate che gli vengono splendidamente anche quelle.