
Immagine reperita in rete
Ciò che scriverò adesso non toglie un milligrammo di colpa al Turetta, nè sposta di un micron la consapevolezza dell’immenso e immane dolore dei Cecchettin, sono riflessioni, se volete che lasciano il tempo che trovano, o magari possono essere spunto di riflessione. Fatene ciò che più vi garba. Ieri ho seguito come tanti i funerali di Giulia e come tanti se non tutti, sono stata colpita dalle parole del padre. Ha detto che dobbiamo stare attenti, ed è sacrosanto, ma prima ancora dobbiamo stare attenti a noi stessi, ai nostri preconcetti. Chiunque di noi non riesce a guardare con oggettività le persone che ci graviano intorno. Partiamo da qui. La sorella da subito ha detto che Filippo era geloso ossessivo possessivo, ma fino a quella sera in cui Giulia non è rientrata, non aveva mai pensato che avrebbe potuto trasformarsi in assassino. Le amiche a cui Giulia aveva mandato i vocali che abbiamo sentito mille volte, non credevano che avrebbe dto di matto davvero. Questo lo dò per certo, altrimenti avrebbe parlato col papà, insieme avrebbero parlato con Giulia, con Filippo, con i suoi genitori. Se avessero pensato per un millisecondo, che poteva diventare un pericolo, avrebbero avvisato le forze dell’ordine, avrebbero impedito a Giulia di stare sola con lui, avrebbero chiesto un provvedimento cautelare. Non lo hanno fatto. Perché non si pensa mai che al mostro stiamo aprendo la porta di casa, che lo abbiamo accolto, che gli abbiamo in qualche modo affidato una NOSTRA persona. Perché diciamolo, non c’è niente di più gratificante dell’appartenenza, alla famiglia, a un amore a un gruppo. Non facciamo come con le altre mille parole che abbiamo snaturato. Mia Mio Nostro, sono parole dolcissime, non uccidono, non feriscono. Sei il mio amore, sei la mia bambina, sei la mia mamma la mia migliore amica/ amico, sono parole rassicuranti, ci danno la sensazione che non saremo mai soli, proprio perché apparteniamo e reciprocamente le nostre persone ci appartengono. Mettiamoci la testa vicino al cuore, sempre, partiamo dal presupposto che è meglio litigare e farsi mandare a dar via l’organo da chi amiamo se questo significa metterle/gli quella pulce nell’orecchio che potrebbe salvargli la vita. Riprendiamo le misure, capiamo che se durante una lite, per qualsiasi ragione avvenga, può capitare di alzare la voce, di dirsi cose terribili, anche di dare un pugno al muro, non è quello che ci fa dei mostri o fa dei mostri delle persone con cui litighiamo. Stiamo attenti anche a tutti quei segnali che non ci coinvolgono in prima persona, a quanto chi ci è vicino può essee fragile, perché è la fragilità che scatena il mostro. Ci deve fare tenerezza un bimbo che dorme col peluches, se lo fa un adolescente vuol dire che gli manca qualcosa, se lo fa un uomo o una donna, vuol dire che non ha sviluppato in modo sano l’adulto che è. Non preoccupiamoci delle urla durante una lite, stiamo attenti piuttosto a quanto spesso chi abbiamo vicino, la lite la cerca. Perché se è una modalità continua, manca un equilibrio di fondo. Lo stesso se chi abbiamo vicino, in modo subdolo, tenta di sminuirci, magari senza usare parole precise e umilianti, ma stiamoci attenti, tutti. Uomini o donne che siamo. Ha un bel dire la Bruzzone che il raptus non esiste, esiste sì, e può prendere chiunque, in qualsiasi momento. (Non è di sicuro il caso di Turetta). Non lo sappiamo cosa può scatenarlo, ma facciamo in modo di non esserci se e quando accadrà, pensiamoci prima, perché il mostro potremmo essere anche noi.
