Finiti i bagordi, vi propongo qualcosa di Agrodolce

Layout 1Un libriccino piccino, una raccolta di racconti (raccontini) piccoli ma carucci assai. Lo ha scritto Luana Troncanetti, lo ha pubblicato in cartaceo L’Erudita per quelli che proprio non si vogliono adattare al’ebook. Sono racconti ironici qualcuno dolce qualcuno più aspro ma tutti scritti con bravura. Non racconterò che è una raccolta imperdibile perché non stiamo parlando di Edgar Allan Poe, ma Luana Troncanetti sa scrivere. Nelle altre cose che ha scritto ha una tendenza noir piuttosto marcata, una bella fantasia tanto cuore e li usa entrambi abilmente. Vincitrice di più di un premio, ha partecipato ad antologie e raccolte. Potrei fare una recensione racconto per racconto ma preferisco consigliarvi di spendere qualche euro e lasciarvi godere di queste chicche in cui c’è la sua bravura la sua voglia di strappare due risate (anche amare ma perché no). Qui trovate tutte le indicazioni per acquistare Agrodolce ma anche L’antiguida al mestiere di mamma (e lì si ride senza amaro) e anche Silenzio, il noir di cui dicevo prima. Andate e leggete bella gente, perché un buon anno comincia anche con buone letture

Il maestro delle ombre – Donato Carrisi fa ancora paura

Quando ho incontrato Donato alla presentazione del suo nuovo romanzo, mi ha detto di aver alzato l’asticella, in9788830439412_0_0_300_80 realtà l’asticella è stata portata a livelli da record e non da record italiano.  Poi vi parlo del libro ma prima volevo soffermarmi sull’autore, o meglio ancora su cosa è capace di trasmettere quest’uomo. Forse è vero che non bisogna mai fidarsi dell’apparenza, avete presente mr. Deaver? Sì sì quello che ha inventato Lincoln Rhyme, magro scavato, insomma che i suoi libri facciano paura è abbastanza logico, o King, il Re, con quel sorriso spiritato ti pare normale che sia perennemente in compagnia dell’Uomo nero. Carrisi no, quest’uomo normale, anzi dall’aspetto mite i toni pacati e un sorriso sincero e cordiale, quest’uomo accogliente te lo immagini al massimo in compagnia della nonna, o mentre racconta le fiabe al suo bambino, e invece ti scaraventa in abissi che fanno una pippa al compianto Maiorca se mi passate il francesismo. In occasione di un altro incontro descrisse in questo modo la paura: immaginatevi soli in casa e di sentire provenire da un’altra stanza o da sotto il letto, un colpo di tosse. Ci siete? Ecco stavolta ha fatto peggio (o meglio insomma, avete capito). Coprotagonista è il buio, quello vero che pochi hanno mai visto davvero. Buio e silenzio, niente tranquillizzante ronzio degli elettrodomestici, niente radio o tv, niente telefoni. No non vale guardare fuori dalla finestra, il black out è totale, niente luci neanche fuori. Chissà se il palazzo di fronte esiste. Piove sicché non c’è nemmeno un vago chiarore di stelle e luna. Cosa scatena quel buio nella gente? Quali azioni si possono fare protetti dall’oscurità? Le peggiori. Marcus, il penitenziere che ben conosciamo nel buio si muove tranquillo, stavolta non sta combattendo il male, o meglio non solo. Sta giocando una partita con se stesso, con l’amnesia che lo ha colpito. Non sa assolutamente cosa stia cercando, perché qualcuno abbia tentato di ucciderlo, dove portino gli indizi che sta trovando come le briciole di Pollicino nel bosco e chi li abbia lasciati. Lo accompagna Sandra, la fotorilevatrice che ha chiesto di lasciare il servizio perché schiacciata dal troppo orrore, qualcuno ha fatto in modo di coinvolgerla. C’è tanto buio in questo romanzo, e c’è tanta inquietudine che se la gioca con la paura, perché quello che Carrisi sa fare meglio, è mescolare la fantasia più turpe a situazioni assolutamente vere, come è vara l’esistenza della Penitenzieria, come è vero il protocollo del black out, com’è vero che dietro ogni porta ci sono stanze che per fortuna, a pochi è dato conoscere. Quindi io vi ho avvisati, lasciatevi accompagnare in una Roma che riconoscerete tra il sì e il no, in un viaggio con destinazione ignota e preparatevi a sobbalzare quando vedrete la stazione di arrivo.

 

Luigi Romolo Carrino ovvero come ti scardino i tabù – Il pallonaro

pallonaro_400Ma insomma sti gay, froci ricchioni culattoni busoni o come più vi piace chiamarli, esistono o no? Esistono ma siccome sono effeminati non giocano a calcio, se per caso dovessero di sicuro non arrivano alla massima divisione. E invece Diego Di Martino (abbiate pazienza ma è napoletano ed ha avuto il coraggio di nascere il giorno in cui il Napoli ha vinto lo scudetto, si è rassegnata anche la mamma), a ventidue anni gioca in serie A e ha un piccolo problema. Lo sa lui e lo sa il suo procuratore, gli piace il pesce. La cosa è parecchio problematica perché come si diceva, nel calcio non esistono i gay e quindi incontri clandestinissimi e blindati con dei marchettari strapagati (la discrezione quasi mai è gratis) supervisionati dal suo procuratore e donne farlocche con cui apparire sulle copertine dei giornali. Poi vai a guardare gli scherzi che fa il destino, Diego scopre che mogli e figli o virili manate in campo, nascondono a volte altri gay, altre anime che non possono uscire. Ovviamente non vi racconto nulla di come si svolge la trama di un romanzo che definire godibile è poco, ma sottolineo come Carrino sia in grado di alternare momenti in cui ti si stringe il cuore a momenti in cui ti pisci addosso (cioè, io ancora non mi sono ripresa dall’immagine dei mammut – che al mercato mio padre comprò perché erano finiti i topolini -) ed è solo un esempio. Ti sbatte letteralmente in faccia il sesso e l’amore, perché come dice magistralmente, si perdona la droga il tradimento  l’indulgere nella prostituzione anche minorile che si picchi la moglie, ma la tenerezza e l’amore no; “è l’amore storto che somiglia paro paro all’amore dritto che non si perdona: la somiglianza alla sedicente normalità, in questi casi non si perdona mai.”

Io ve lo dico, se avete amici gay che non sono del tutto tranquilli nel mondo, se vi pare di non avere pregiudizi ma poi a pensarci bene con degli omosessuali presenti vi sentite sempre un po’ a disagio, se non siete sicuri di sapere cos’è l’amore, anche quello di una madre o di un padre, se vi chiedete spesso cosa sia l’amicizia, se siete omofobi magari non per colpa vostra: leggetelo, fatelo leggere, è una lezione grande impartita con leggerezza ma con la precisione di un bisturi. E jà che poi mi ringraziate.

Metti Il Turista sul comodino – Massimo Carlotto torna e colpisce duro

cop (1)Venezia è piena di belle donne, ma c’è un uomo che guarda oltre la bellezza e l’eleganza, lui ha una passione per le borse, conosce le griffe e più sono raffinate, più le donne che le portano acquistano valore ai suoi occhi. Detta così non sembra una gran cosa eh, ma se vi dicessi che l’avere una borsa anziché un’altra può fare la differenza fra la vita e la morte? Ecco, il Turista che ci racconta Carlotto è quello che decide se la borsa che porti vale o meno la tua vita. Neanche questo però basta per dire di cosa parla questo nuovo romanzo, perché lui, il Turista, è solo una delle pedine che compongono questa scacchiera su cui si  gioca una terribile partita. C’è un ex commissario, Pietro Sambo, quello che io definirei uno sfigato, ha commesso un errore veniale, fra l’altro nemmeno per se stesso, e ci ha rimesso tutto, faccia carriera e famiglia; gli pesa da morire perché Venezia è un posto piccolo, è un intrico di calli campielli rii (quelli coperti che si chiamano terà – interrati) dove alla fin fine si conoscono tutti, e nessuno si fa scrupolo di trattarlo come un reietto, ma lui non ci sta perché in fondo il suo lavoro in polizia era la sua vita, è uno che cerca la giustizia che la ritiene un valore irrinunciabile. C’è una vittima che sparisce e tanti personaggi che compaiono. E per quanto riguarda la trama credo di avervi incasinati abbastanza. Adesso arriva il bello, o almeno quello che io ho trovato irresistibile in questo romanzo. Carlotto ci ha messo tutto, va bè, tanto di questo mondo marcio e balengo (se più l’uno o più ‘altro è scelta ardua) incorniciato nella città più bella del mondo, fuori dai circuiti noti, nei campielli e nelle calli che conosce chi ci vive, nei  bar nelle cicchetterie, negli appartamenti affittati a nero, ha fatto muovere servizi segreti che chiamare deviati è poco, anche se secondo la loro logica perseguono dei fini nobili, sono collusi o comunque interagenti con le forze dell’ordine e di questo approfittano per reclutare Sambo promettendogli una riabilitazione; sono disposti a tutto. I temi come dicevo sono tanti, quello su cui forse si è più concentrato l’autore è però la psicopatia, quella vera che non si vede, quella consapevole che i “malati” riescono in qualche modo a controllare che li può portare a diventare dei serial killer, come nel caso del Turista, o come ha ricordato lo stesso Carlotto nell’intervista a Farhenheit (rai3), arrivare ai vertici della società. Insomma come sempre, un gran giallo, un autore che dice tante cose tenendoti avvinghiato alle pagine.

La rabbia l’orrore

Volevo scrivere qualcosa sul fatto di oggi, ma oltre 20 morti meritano rispetto, quindi scriverò ma non oggi. Lo farò perché è il mio blog, il mio diario, quello che mi serve per non esplodere. Ma lo farò nei prossimi giorni, prima cercherò per quanto possibile di raccogliere il maggior numero di informazioni, perché di qualcuno la colpa deve essere. Perché oltre 20 morti e le loro famiglie si meritano almeno qualche parola sensata e non urlata fuori dalla rabbia

E anche Papa Francesco ha detto la sua cazzata – giustificata ma cazzata

Metto la foto solo di una mano, mi sembra più che sufficiente.

Questo bambino (ammesso che sia ancora vivo) non verrà salvato dalla morte   fame_africain mare, questo bambino probabilmente non vedrà mai un rubinetto, una tavola con sopra del cibo, se sopravviverà la sua vita sarà  presumibilmente un povero cristo che si arrabatta per un pugno di riso  concesso dalla Caritas o da qualche altra missione umanitaria. Più probabilmente morirà di fame prima che gli arrivi un aiuto.  Nella foto qui sotto bambini che sono sbarcati, quelli che ce l’hanno fatta.  Io una certa differenza la noto, voi

migranti minori2no? Ha ragione il Papa, e la cazzata è perfettamente coerente con il suo ruolo, scappare dalla fame non è un delitto, però però, faccio un inciso. Mi è capitato qualche giorno fa di sentire una storia, una giovane Italiana andata in Africa per imparare lo Swahili, ha raccontato delle difficoltà che ha incontrato già in aeroporto, donna bianca e sola, la polizia le ha sequestrato lo zaino (dicesi zaino non valigia di Vuitton, e le hanno fatto domande per ore. Quando ha raggiunto il villaggio, ha scoperto che non c’era acqua, per potersi lavare doveva andare a qualche km dal villaggio e pagare per fare la doccia in albergo. Ora mi sorge spontanea una domanda, è colpa nostra, intendo dell’occidente, se i governi di quel paese africano, credo fosse in Senegal, lasciano che gli alberghi abbiano l’acqua e i villaggi a pochi km no? Direi che l’ipotesi non regge, la colpa è di politiche interne su cui abbiamo poco potere.

Questa invece  un immagine di Aleppo, o10351175_568355249951655_3029075688244993624_nra mi chiedo, è davvero possibile non fare delle differenze? Considerare i migranti africani (quelli che sbarcano, che hanno trovato centinaia di dollari per pagare il viaggio, dollari con cui avrebbero potuto mangiare per mesi) alla stregua di chi scappa da un bombardamento? A chi, e credetemi sulla parola, esce per andare al lavoro o all’università e non sa se ci arriverà o se a sera rivedrà la sua famiglia.

Non è razzismo, non è intolleranza, è buon senso; e chi come il papa, che ripeto, non può dire altro, sostiene che deve esserci posto per tutti è in malafede, è condizionato dalla paura di passare per razzista o fascista, è un buonismo che non è supportato dai fatti. Torniamo coi piedi per terra, ridiamo la priorità alle cose, prendiamo le distanze e rivediamo le cose nella giusta prospettiva, perché a voler aiutare tutti va a finire che non si riesce a salvare nessuno

E’ così che si uccide (la voglia di leggere)

Porca vacca, due delusioni una di seguito all’altra ti fanno davvero girare le scatole, la prima il libro che ha vinto uno dei più prestigiosi e ambiti (sì ciao) premi letterari di cui però ho ampiamente detto su Anobii, la seconda più cocente per il battage che ha preceduto l’uscita del libro. E’ così che si uccide di Mirko Zilahy. Venduto in mezzo mondo pubblicato da una signora Casa Editrice, mi aspettavo una bomba, e l’ho avuta; a partire dalle prime pagine in cui un professore universitario canna (sbaglia per chi non ama il gergo dialettale) clamorosamente un congiuntivo – e ancora a ripensarci mi parte un brivido dal vertice del cranio che arriva fino al coccige – alla carta d’identità di una signora il cui stato civile è celibe. Taccio sulle procedure di polizia, che poi dai, cosa ti costa chiedere a qualcuno, sorvolo sul fatto che ad un certo punto, per arrestare un banalissimo assassino, in genere il serial killer ha caratteristiche un po’ diverse da quelle del nostro ma transeat, viene richiesto l’intervento dei NOCS (squadra speciale della polizia addestrata all’antiterrorismo e alle azioni di assalto in cui siano presenti ostaggi), ignoro o almeno ci provo, il fatto che un PM partecipi attivamente alle indagini, tralasciando di segnalare un fatto di una gravità assoluta che inficerebbe la confessione anche davanti al tribunale di Topolinia. E però santa pace, mi fai un trattato storico logistico che neanche gli Angela (Piero e Alberto) sull’architettura pre o post industriale (non ne ho idea e non vorrei scrivere cavolate, facendomi anche l’analisi comparativa fra i monumenti del passato e gli emblemi della modernità (parliamo del gazometro e di altri siti particolari), e anche se mi annoio un po’ ci posso passare sopra, ma poi mi mandi un commissario (che fra l’altro ha riconsegnato il tesserino) e un medico legale a manomettere di nascosto il cadavere, e la scientifica non si accorge di nulla, bè permettimi che un po’ mi girano. La mia anima animalista poi non ci ha visto più davanti alle nutrie carnivore. Non vado oltre con la demolizione anche se il materiale non mancherebbe, mi limito a dire che mi auguro, ma soprattutto auguro al giovane autore, di trovare sulla sua strada persone che non cavalchino l’onda, che abbiano il coraggio di fare un sano editing e una sana correzione delle bozze. Spero davvero che con questa brutta caduta, indipendentemente dai risultati di vendita lo è, non danneggi un autore che con una mano un po’ più ferma a guidarlo, e accumulando un po’ di esperienza, potrebbe scrivere delle cose davvero buone. Magari non gialli che richiedono oltre ad una buona storia, una solida conoscenza, o almeno degli ottimi consulenti delle procedure poliziesche. Ah, un ultima cosa, so perfettamente che gazometro è utilizzato normalmente, ma dizionario alla mano, in italiano è meglio gasometro, che a ingarbugliare i fatti con le parole ci pensa già la politica.

L’Europa che voglio

L’Europa, il vecchio continente, gran bel vecchio fra l’altro. Quello dove dopo Schengen si andava in Costa azzurra, in Spagna o dove volevi fermandoti al cambio, una volta ci rimettevi una volta ci guadagnavi. Poi han voluto l’Unione Europea, e va bene ci sta, ma dove e quando è successo che la Germania potesse decidere quanti litri di latte potevamo vendere? Ma in Germania o in Francia hanno le mucche programmate per fare un tot di latte al giorno? E perchè a un certo punto ci siamo trovati a dover buttare via le arance siciliane, pagando le restanti uno sproposito? Ecco mi sta bene l’euro, mi sta bene che abbiamo un interesse comune, ma deve essere comune, non di pochi. Tanto comunque, e questo forse sfugge, anche se non passi all’ufficio cambio, capita che il pane tu lo paghi 6 euro al kg in Italia e 2 in Francia. Allora ecco, L’Europa che voglio io è un Europa dove nessun paese prevale, dove ognuno produce quel che può e il surplus lo vende a prezzi calmierati a chi ha carenza. Voglio un’Europa in cui nessuno possa decidere che se gira al produttore io devo mangiare un formaggio senza latte, o una birra senza luppolo. E voglio un Europa dove ognuno parli la sua lingua avendo imparato a scuola una lingua comune. Dove l’importante sia l’Uomo. Non le banche. Come dite? L’ha già detto Gaber? Ah già.

Mi era rimasto fra le bozze, chissà perché

Ormai è una certezza, sono caduta qui ma ero destinata ad un altro mondo. Questo proprio non lo capisco. Sì sto pensando alla ignobile vicenda Aldrovandi. Ignobile da qualunque parte la si voglia guardare purtroppo. Si salva solo il dolore di una famiglia che aveva un figlio e non lo ha più. Però vorrei capire, capire chi cavalca la tigre ma soprattutto perché. Perché lasciare sulla strada poliziotti evidentemente impreparati. Impreparati alla vita mi verrebbe da dire.  Perché non ho dubbi che in altre 1000 occasioni abbiano fatto il loro dovere egregiamente, salvo perdere la testa davanti all’imprevisto. Un imprevisto ragazzo fatto a sufficienza – stando alle perizie – per essere ucciso da un cedimento cardiorespiratorio abbastanza tipico. Possibile che non fossero preparati ad affrontare una situazione in cui una persona, indipendentemente dal motivo è andato di testa? Da non capire che la non reazione al dolore delle botte era un sintomo e non una spacconata (che non giustificherebbe comunque la prosecuzione del pestaggio), da non capire che sarebbe stato sufficiente ammanettarlo e poi spedirlo in ospedale? Questa è la prima cosa che non capisco, la seconda invece è il perché i giornali i pennivendoli i telegiornali e l’ormai mitica rete, diano genericamente la notizia della condanna per omicidio senza specificare che trattasi di omicidio colposo. Perché non vorrei dire ma fa la sua bella differenza. Così si creano i martiri e a me sembra che troppo spesso si confondano degli sfigati con dei martiri. Sfigati nel senso di sfortunati all’ennesima potenza, fosse passato da un’altra strada Federico sarebbe ancora vivo, ma forse lo sarebbe anche se invece di essere conciato fosse stato lucido.

Inutili diatribe

Ancora una volta gironzolando in rete resto sconvolta incazzata e oltre, leggendo articoli sulla presunta discriminazione dei disabili. Lo so l’argomento è spinoso, ma perdio, abbiamo una lingua così piena di termini che forse sarebbe il caso di impararla prima di usarla a sproposito. Lo spunto mi viene da questo articolo http://www.wired.it/lifestyle/salute/2014/03/03/genitori-cattivi-quella-ragazza-disabile-blocca-tutta-la-classe/?utm_source=twitter.com&utm_medium=marketing&utm_campaign=wired. Ora esistono diversità, disabilità e situazioni particolari ingestibili. Inutile nascondersi dietro la storia dei diritti. Ci sono le Simona Atzori senza braccia dalla nascita che vive come se le braccia le avesse (riuscissi a fare io metà delle cose che fa lei) e poi ci sono i paraplegici. Sarebbe bello fossero tutti come Alex Zanardi, invece ci sono persone che non possono (per mille motivi) e pretendono di fare come se le gambe le avessero. Sarò crudele non dico di no, mi augurerete figli handicappati o disgrazie a gogò, ma se è un tuo diritto avere un montascale/ascensore/pedane che ti consentano di arrivare dove arrivo io, non puoi pretendere che io non salga le scale perché a te viene negato. Prenditela con lo stato, prenditela con il comune prenditela con chi ti pare ma non con me. Perché il tuo diritto finisce dove inizia il mio e viceversa. Se la disabilità è fisica, si pretenda, tutti indistintamente, che lo stato metta tutti nelle stesse condizioni – anche se a dirla tutta, un ascensore panoramico attaccato al Cupolone un po’ mi farebbe incazzare – e sia data a tutti la possibilità di accesso a servizi e quant’altro, ma senza scadere nel ridicolo e nel paradossale. Se sei su una sedia a rotelle maledetta miseria, non puoi pretendere di fare pattinaggio. Farai uno sport di squadra in cui siano tutti sulla sedia a rotelle, però a quel punto non dire che sei ghettizzato/a. La logica mi dice che non posso far gareggiare un peso piuma con un peso massimo (non contate troppo sulla storia di Davide e Golia che non abbiamo le prove). Diverso non è un giudizio, è una constatazione. Io certamente sono diversa da Caravaggio, sono diversa da Michelangelo, da Isabella Allende da Alessia Marcuzzi e da Barbara D’Urso – grazie a Dio -, qualcuno ha il coraggio di dire che mi sto definendo migliore di loro? Ecco allora se io non mi sogno odi dipingere la Sistina, tu che purtroppo hai un handicap  psichico, non puoi pretendere di fare l’università. E questo non significa che sei peggiore, solo diverso.